mercoledì 28 novembre 2018

Kafka e il productivity planner

Da Ticino7 del 30 novembre 2018
Il mio productivity planner dice che nessun compito è impossibile per chi sa come affrontarlo e dunque per chi – ovviamente – possiede il productivity planner. A farne molto di più di un’agenda infarcita di frasi motivazionali è la garanzia di piena soddisfazione organizzativa fornita a coloro che impareranno a suddividere i propri compiti in altri compiti più piccoli. Ogni obiettivo può dunque essere raggiunto se affrontato in intervalli da 25 minuti ciascuno. Durante i 25 minuti di lavoro (l’unità di misura della produttività dura meno di un massaggio rilassante) occorre lavorare e basta. Significa che il telefono va messo in modalità aerea, le email non si guardano, è vietato alzarsi e il tempo deve essere scandito da un cronometro, nessuna sbirciatina ai profili instagram degli ex e delle amiche felici è consentita. Si può recuperare al termine di ogni unità di misura da 25 minuti, quando sono previsti 2-3 minuti di riposo per sgranchirsi le gambe e andare in bagno. Alla fine di ogni giornata o settimana è fondamentale darsi un voto, valutando i propri risultati rispetto alle previsioni. Dimenticavo di ricordarvi che la cosa principale è stabilire un ordine di priorità, identificando i cinque obiettivi più importanti della settimana, raggiunti i quali ci si potrà dire soddisfatti.
Così l’altra mattina mentre cercavo di stabilire la top five della settimana al termine della quale mi sarei guadagnata un premio ho iniziato a sfogliare le pagine. Per scoprire che “tutto ciò che vogliamo è appena fuori dalla nostra comfort zone”. Poche pagine dopo ho appreso che anche Kafka si è occupato di produttività, a giudicare dalla citazione da lui attribuita secondo cui “produttività è essere capace di fare cose che non saresti mai stato capace di fare prima”. Eccomi, ho pensato: il bilancio di casa è alla mia portata a colpi di sessioni da 25 (il tempo di una messa in piega). Altre due pagine di obiettivi raggiunti, mi sono detta, e farò dei post con #ilovemylife e #ilovemyjob, gli hashtag delle persone soddisfatte. Fino a che ho girato pagina e ho trovato un’altra citazione detta: “You don’t need more time in your day, you need to decide”. Ora ho 25 minuti per concludere che non ce la farò mai.

giovedì 6 settembre 2018

I palloncini e le macerie

Da Ticino7 del marzo 2018
“E quando i palloncini scoppieranno?”. Stavo cercando di venire a capo della festa di compleanno organizzata insieme a quella di un amichetto quando “l’infinita vanità del tutto” si è concretizzata nella fine inevitabile di ogni palloncino come un problema insormontabile. Cerchi di abbozzare come le madri che dicono che non bisogna avere paura del buio e facendolo ti senti subito disonesta: i palloncini scoppiano, le persone muoiono. Lo abbiamo sempre saputo ma da quando è morta la zia qualche mese fa lo hanno capito anche le bambine. E cinque anni non sono pochi per sapere che tutti moriremo. È normale, i bambini pensano spesso alla morte, e spesso con quella naturalezza che ci raggela. “Perché mi guardi?” “Per ricordarti meglio quando sarai morta, mamma!”. Fai le corna, tocchi ferro, scoppi a ridere e ti versi un bicchiere di vino sempre sapendo che hanno ragione. Questo fatto dei palloncini è increscioso e imbarazzante, lei non vorrebbe comprarli per evitare che scoppino. Tu cerchi una soluzione che non censuri la bellezza per paura della fine. “Chiediamo a Filippo”, proponi sperando che la presenza di un secondo festeggiato renda meno incombenti certe questioni. Neanche per sogno. Filippo è un maschio, ha già preparato il disegno per invitare i compagni. “E poi cosa faranno i compagni con il mio disegno? Lo butteranno?”. Spieghi che faremo delle fotocopie, che il disegno originale lo conserveremo. “Noi, lo sai, non abbiamo mai conservato gli inviti delle feste degli altri”. Neanche una fotocopia può andare perduta. Mi domando se il giovane Werther abbia mai festeggiato un compleanno. Qualche giorno fa cercavo qualcosa in camera sua e nel comodino ho trovato carte di vecchi ovetti Kinder, scontrini, etichette dei calzini nuovi. C’è un angolo in cui conserva tutto ciò che non vuole buttare. Cioè tutto. Ci metteremo i palloncini scoppiati, ho pensato. Forse una famiglia è un luogo in cui fai spazio alle macerie e continui a comprare palloncini.

sabato 17 marzo 2018

Baci influenzati

Dal Giornale del Popolo del 5 gennaio 2018
Del perché l’influenza è il modo migliore per concludere le vacanze. Così si intitola l’approfondita riflessione della ficcanaso di oggi, che prende spunto da vicende personali e racconti di amici circa la sottovalutata strategicità dell’influenza durante le ferie. Alcuni di noi l’hanno scontata all’estero, dove hanno scelto di passare il Capodanno. Hanno dovuto studiare come si dicesse tachipirina nell’idioma del luogo per poi aspettare sotto le coperte che passasse la buriana. Non c’è cosa peggiore che star male fuori casa, dicono; il che fa sorridere l’altra metà del cielo, quella in cui abitano coloro che per le vacanze non hanno pianificato un bel niente, improvvisando soltanto spostamenti tra una tavolata e l’altra. Ma l’influenza non da tregua, quindi colpisce senza pietà anche coloro che prudentemente sono rimasti in patria. A casa, dove si dispone di un ricco armamentario di pastiglie, sciroppi e termometri a raggi laser, 48 ore sopra i 39 gradi di febbre sono impensabili per un adulto. Eppure succedono, rendendo la tachipirina l’unico argomento di discussione tra gli adulti che la sera pregano che vengano almeno risparmiati gli infanti. I bambini, da parte loro, si godono alla grande la totale impotenza dei genitori che pur di potersi appisolare cinque minuti concedono la televisione senza limiti. Sembra tutto un disastro, quando il calar della febbre restituisce un minimo di lucidità che evidenzia i vantaggi dell’influenza: regala l’opportunità di recuperare qualche etto sulla bilancia della vergogna dopo le feste e soprattutto consente di ricominciare a lavorare già sfiniti, iniziando a contare i giorni per il prossimo ponte.

I regali da cambiare

Dal Giornale del Popolo del 29 dicembre

Corsette da 5km e 350 calorie. In pratica una fetta di panettone, una sola, senza considerare quelle “briciole” ingurgitate per puro altruismo: vorrai mica buttare nel bidone pezzi ancora buoni da mangiare? Regali non consegnati da conservare o, eventualmente, dirottare su parenti o amici di cui ti eri dimenticata. Recupero cene e saluti con cugini lontani. E poi, tra le incombenze di quei giorni sospesi che collegano Natale e Capodanno, non può mancare il cambio dei regali sbagliati. Dev’esserci una legge strana che relaziona in maniera direttamente proporzionale l’età con la necessità di cambiare i regali ricevuti. Di certo a sei anni non potevo andare a cambiare Indovina Chi, né mi sarei sognata di farlo. Lo stesso dicasi per la borsa di Prada che mi portò la Befana intorno ai 20. Oggi mi guardo allo specchio e, pur non avendo neppure quarant’anni, dovrà cambiare almeno due regali. Il terzo, l’unico che dovrei cambiare all’istante, devo tenerlo per non sconvolgere equilibri di geopolitica familiare: vuoi buttare all’aria una famiglia per un accappatoio rosa maiale a collo alto?! Certo che no. Così cambierò solo il vestito mongolfiera che mi ha regalato mia madre, dandomi un dolore tremendo. Certo, anni fa mi regalò un trapano distruggendo ogni magia del Natale; ma quest’anno il vestito da signora sovrappeso è davvero troppo. Ti guardi allo specchio, al ritorno dalla corsetta salva-coscienza e solletica-panettone, e ti domandi: dove ho sbagliato? Che cosa ho fatto in meno di 40 anni di vita per lasciare intendere al prossimo che sono una che apprezza la lana cotta o i vestiti comodi? Ho pensato a tutto questo con sconcerto e dolore. Avvolta nel mio accappatoio rosa maiale con maniche a pipistrello e bottoni sul davanti. Gli esami di coscienza, sapete, sono roba da maneggiare con cautela.



Dal Giornale del Popolo del 22 dicembre 2017

Il bancomat che si smagnetizza a tre giorni dal Natale può essere considerato una disgrazia o una sfortuna. Sta di fatto che con poche monete in tasca non posso fare il rush finale che mi ero ripromessa e al di là delle bambole di gufetta per le bambine comprate on line settimane fa non mi resta nulla. E nulla vuol dire nulla. Soprattutto, contavo nei prossimi due giorni per fare l’unico regalo davvero difficile e importante: quello a me stessa. Vuoi mettere cosa significa trovare sotto l’albero un bel regalo incartato con un bell’oggetto inutile dentro? Peggio della nonna che ti regalava i soldi (che comunque erano solo benedetti) c’è il maschio che ti chiede cosa ti serve. Chiedimi almeno cosa mi piacerebbe, mi dico. O spedisci qualche amico ad indagare. Io stessa, del resto, sono oggetto di molte richieste di questo genere: “Ha detto che vuole prendersi una borsa nera, cosa faccio?” Mi sveglio la mattina alle sei per fare un giro nei migliori siti e verificare il termine ultimo per ricevere il pacco a Natale. Poi al marito dell’amica fornisco un report completo, che ha il solo difetto di essere basato su un budget che mi sono auto concessa. Non si sarebbe certo rivolto a me se fosse tirchio, no? Vivere al di sopra delle proprie possibilità è un’arte in cui bisogna essere esperte e non ci si può improvvisare, nemmeno quando si tratta di consulenze. Così l’auto regalo diventa estremamente importante e strategico. Non sarà un’esperienza, non sarà un’idea. Sarà l’ennesimo abito di cui non ho bisogno. Sempre che questo maledetto Bancomat torni a funzionare e che Babbo Natale non abbia deciso di sabotarmi.



Lo sdegno che alimenta l'algoritmo

Dal Giornale del Popolo del 15 dicembre

Il problema di iniziare ad usare i social in età matura è che l’algoritmo, che ti conosce molto meglio di chi vive con te, sa perfettamente che come ogni utente troglodito ti lasci usare da questi mezzi potenti e pericolosi producendo ciò che ne costituisce la benzina inesauribile: indignazione, frustrazione e avidità. In definitiva, dunque, su facebook scuoto il capo e mi indigno, su Instagram mi faccio venire miliardi di idee per acquisti di ogni entità. Su Instragam vivo crisi di coscienza quotidiane: lo compro, non lo compro, lo metto nella lista degli autoregali di Natale, mando il link a mia mamma che è l’unica in grado di farmi regali al mio livello, salvo l’immagine per i saldi, mi metto il cuore in pace e continuo a pensare all’eskimo di Yves Saint Laurent come si penserebbe ad un amante impossibile. Su Facebook gironzolo pensando alle vite degli altri, facendo paragoni, felicitandomi per le persone che non vedo da tempo, screenshottando le cose impresentabili. E poi. E poi arrivano quei video che mi fanno perdere la testa. E l’algoritmo, che tutto puote, lo sa. Non li degno mai di alcuna reazione ma evidentemente lui capisce che li guardo con lo sguardo perso nel vuoto, che trenta secondi dopo ne discuto con le amiche comuni. Loro dicono che fa ridere, che io prendo tutto troppo sul serio e che in fondo dovrei essere contenta di avere un’amica Youtuber in erba. Io penso a quelle visualizzazioni che aumentano video dopo video insieme al mio imbarazzo. E mi domando quello che mi domando ogni volta che vedo un viso sottoposto a un lifting temerario: c’è mai stato un giorno in cui ti sei vista da fuori come ti vediamo noi?