sabato 27 aprile 2019

Cose nostre?


Da Ticino7 del 26 aprile 2019
Tre o quattro Sanremo fa, a un giornalista che in conferenza stampa le chiedeva come mai fosse giù di tono Arisa rispose: “Perché ho le mie cose e noi donne durante quei giorni lì siamo un po’ suscettibili emotivamente. Sono cose naturali: tutti fanno anche la cacca”. 
La cacca la fanno anche gli uomini ma raramente chiunque di noi sarebbe portato a motivare con il malumore da stitichezza qualche calo di performance. Le mestruazioni, invece, sono roba solo di femmine, una cosa per cui le stesse femmine provano spesso un istintivo ribrezzo.
In uno dei telefilm che hanno segnato gli anni Ottanta, i Robinson, la mamma festeggiava “la giornata della donna” con le sue bimbe portandole a divertirsi. Ai tempi di mia nonna ci si sentiva in obbligo di condividere con le donne della famiglia il fatto che la più piccola della stirpe fosse “diventata signorina”.
L’adolescenza scorre tra istruzioni dei tampax consultate come un vocabolario di greco e passaggi in bagno senza farsi vedere. Dopo qualche anno non ci si vergogna più, anche se tendenzialmente si preferisce farsi gli affari propri o rivendicare la possibilità di parlare apertamente di mestruazioni in nome della liberazione femminista che ci restituisce il potere sui nostri corpi. In quegli anni l’unico obiettivo è controllarle, le mestruazioni, diminuendone il più possibile l’incidenza sulla vita. È nel decennio successivo che tutto cambia. Per chi desidera un bambino sono una spada di Damocle. Ogni momento in bagno è il possibile infrangersi di un sogno o un sospiro di sollievo.
Un aborto precoce, spiegano i ginecologici, ha l’aspetto di “una mestruazione un po’ più abbondante”. Ricordo perfettamente l’autogrill di Sant’Eufemia ovest, sulla bretella Bologna-Ravenna, in cui non riuscivo più a uscire dal bagno. Sarà sciocco, ma è solo in quell’occasione che ho pensato per a prima volta a quel sangue come simbolo della contraddizione che percorre la vita.
Tutto il resto, in fondo, è divagazione da quattro soldi. Dalle marche di assorbenti che si sentono in dovere di scrivere sulle confezioni frasi motivazionali sul ciclo, ai colleghi che quando sentono aria di tempestano sentenziano: «Lasciala stare, avrà le sue cose». In quei momenti ogni donna ha la licenza di uccidere, rivendicando il diritto di essere odiosa ogni giorno del mese.


venerdì 19 aprile 2019

Se l'auto è un pied-à-terre


Da Ticino7 del 19 aprile 2019
Della macchina di mia madre ricordo il rumore ad ogni curva dei cd sistemati nella tasca dello sportello, che facevano impazzire mio padre. Si narra, come in ogni epica il racconto si confonde con il sogno, che all’ennesimo viaggio con quei rumori di sottofondo, lui abbia tirato giù il finestrino, esasperato, per buttare fuori tutto quello che si muoveva in quella macchina non sua. La storia riporta anche di sacchetti della spazzatura trasportati giorni intera, nella più completa distrazione della guidatrice, fino all’arrivo di lui. L’uomo che non vedrebbe un prete nella neve e che non è in grado di assemblare una moka del caffè, quando si tratta di automobili diventa un incrocio tra Sherlock Holmes e MacGyver.
È evidente che ho già smesso di parlare dei miei genitori e ho iniziato a parlare di noi e, somma ambizione della rubrichista, anche di voi. Perché possiamo essere belli o brutti, pigri o vivaci, innamorati o delusi, ma sappiamo che non c’è niente di più privato dell’automobile. Pensatelo lunedì mattina, quando il vostro vicino di semaforo si starà esplorando il naso in attesa del verde. O quando la signorina in procinto di ingranare la marcia tirerà fuori il rossetto per un ultimo ritocco guardando lo specchietto. O quando vostro marito vi farà vergognare gridando dietro ai pedoni che vanno troppo lenti sulle strisce pedonali. C’è un posto in cui ci permettiamo di essere più vergognosamente, bestialmente e impresentabilmente noi stessi che non sia l’auto?
Quelle di noi che si mettono al volante la mattina dopo aver lanciato i bambini a scuola agganciano il telefono al vivavoce come un prigioniero affronta l’ora d’aria. Venti minuti di strada per chiamare la mamma, mandare un vocale alla tata perché prepari un sugo salvavita, chiacchierare con l’amica del cuore senza che nessuno si senta autorizzato a disturbare con richieste di qualcosa da prendere, aprire, pulire, trovare.
Il mondo non si divide tra chi in macchina si preoccupa del crick e chi delle salviettine Fresh and Clean, ma tra chi la macchina la usa per spostarsi e chi la venera come pied-à-terre. I bagagliai dei primi sono puliti e dotati di cassetta degli attrezzi. Quelli dei secondi contengono un cambio completo, la borsa del calcetto, i giochi dei bambini, i vestiti vecchi da smaltire in qualche centro per l’usato. Soprattutto: perché usare il bagagliaio quando ogni cosa può essere agilmente raggiunta se posizionata sul sedile posteriore? La prova che l’acqua non scade l’abbiamo avuta più volte d’estate, attaccandoci avidamente alla bottiglia d’acqua che giaceva da mesi sotto il sedile del guidatore.
L’altro tema da affrontare è la guida. Non prima di aver fatto una premessa importante: l’unica vera differenza genetica tra maschi e femmine si vede nella marcia indietro: nessuna donna di mia conoscenza sa fare la marcia indietro diritta come la fa un uomo. Fatta eccezione per questo piccolo dettaglio insignificante (gli uomini non possono che eccellere in qualcosa di utile soltanto a dimostrare la loro perizia, ma senza nessuna reale ricaduta pratica di peso), il vero pericolo è il pilota che “ha frequentato un corso di guida sicura”. Fate qualche kilometro come passeggero di un “pilota sicuro” e pregherete di non essere mai salite sulla sua auto. Può essere un uomo o una donna, ma giura che professionisti del settore gli hanno insegnato che è estremamente sensato frenare fino all’ultimo secondo, sballottare il passeggero nell’abitacolo e sgasare come forsennati. Di sicuro, in questi corsi, ci deve essere almeno il vaffa finale.


venerdì 12 aprile 2019

Ragazze che leggono

Da Ticino7 del 12 aprile 2019

Era l’estate dell’anno scorso e stavamo entrando in un Autogrill quando la grande lesse tutto di un fiato il cartello sulla porta: “spingere”. Spinse ed entrò, senza aspettare noi. “Vedi, leggere serve a questo. E a tante altre cose”, ho detto con soddisfazione e scomodando parole come “emancipazione”.
Non sapevo, allora, che ci aspettavano mesi di cartelli stradali letti ad alta voce, cartelloni pubblicitari esaminati dalla prima all’ultima riga, canzoni “Ho una zia che sta a Forlì” intonate alla vista del cartello “FORLI’” sulla A14. Un cartello dopo l’altro siamo arrivati alla prima elementare e al tema degli intervalli a scuola passati a leggere.
Davanti a lei cerchiamo di fare finta di niente, ma come sempre discutiamo: lui è fiero di avere una figlia che non si conforma alle chiacchiere e cerca di proporle alta letteratura, lei si domanda se mai riuscirà ad integrarsi nella classe e se in fondo non abbia esagerato regalandole Le tigri di Mompracem, benché in edizione ridotta.
Al parco spesso si siede sulla panchina a leggere anziché giocare. Ci preoccupiamo fino a che non abbiamo l’onestà intellettuale di ammettere che è esattamente quello che vorremmo fare noi in pausa pranzo. Ci è giunto in soccorso – a proposito di letteratura – un brano di Paolo Nori, tratto da La grande Russia portatile: “Allora, avevo sei anni, leggevo libri da bambini, non me ne ricordo uno, mentre mi ricordo, cinque anni dopo, il primo libro da grandi che ho letto; sono passati più di quarant’anni e io, di quel momento lì che ho scoperto i libri da grandi, quante cose ci possono essere dentro un libro senza figure, mi ricordo tutto: mi ricordo dov’ero, sotto il portico di casa nostra in campagna, mi ricordo il cantar di mia nonna dalla cucina, mi ricordo che passava mio babbo con dei secchi di cemento, mi ricordo la sedia arancione dove ero seduto, mi ricordo la polvere che c’era nell’aria, mi ricordo la sensazione stranissima dovuta al fatto che io, incantato dal libro, non ero per questo incanto estraniato dal mondo, ero dentro, nel mondo: leggere produceva un effetto stranissimo, faceva diventare il mondo più mondo”.
Tra uno spingere e tirare c’è un mondo intero. E forse l’unica strada è non averne paura.



giovedì 4 aprile 2019

Venghino signori, c'è il circo!

Da Ticino7 del 5 aprile 2019
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Mentre le più temerarie si prenotavano per accarezzare le tigri, le meno coraggiose giuravano di non scendere dalla macchina alla presenza di un qualunque animale feroce. È bastato parcheggiare nelle vicinanze del tendone per far capire alle bambine che in vista non c’erano brividi né pericoli. Al circo, almeno in quello in uno sperduto paesino della provincia italiana in cui siamo finiti noi per caso, la specie più a rischio è quella umana. Non immaginate un grande circo di quelli a cui siamo abituati noi. Immaginate un tendone sfinito, che ad ogni angolo racconta la gloria dei tempi che furono, quelli in cui intorno alla pista si assiepavano migliaia di posti e dietro le quinte vivevano decine di animali esotici. Poi il tempo è passato, la gente ha iniziato a cambiare abitudini e il successo si è perso per strada.
Il direttore del circo indossa un simil frac bordato di lustrini, la voce impostata e l’occhio di vetro corredano un portamento fiero che nessuno può apprezzare a dovere. “Se il nostro spettacolo vi è piaciuto ditelo a tutti i vostri amici e fateci tantissima pubblicità!”, ripete ad ogni pausa, mentre la trapezista si cambia d’abito per tornare in pista ad ammaestrare i pappagalli.
Mangiando le patatine nel nostro posto in prima fila (il bello di un circo in decadenza è che esistono solo posti in prima fila) abbiamo osservato uno spettacolo intriso di fierezza e malinconia. Le cosce tornite della ballerina, lo sguardo spento della domatrice e quello fiero dei cavalli, l’ironia del pappagallo deciso a boicottare il numero rifiutandosi di pedalare sulla bicicletta. Artisti e animali si esibiscono come se avessero di fronte centinaia di spettatori, galvanizzati dai riflettori e indifferenti all’odore persistente del letame.
C’è qualcosa di tremendamente malinconico e fiero in questo spettacolo portato avanti non solo dal mestiere o dall’abitudine ma dalle fede incrollabile nell’arte di cavarsela, domare, riuscire. Con grazia e sprezzo del pericolo. Pensi che, anche se in un paesino di poche anime e con un incasso di pochi soldi, l’equilibrista mette la sua vita in mano a quel giovane muscoloso che fissa le corde prima che inizi il numero. Pensi a quanto coraggio ci voglia per farlo. Come nella vita, sotto i riflettori nonostante l’odore di letame.