mercoledì 24 luglio 2019

La valigia, il nostro esame di maturità


Da Ticino 7 del 19 luglio 2019
Immaginate un viaggio al mare di pochi giorni, di quelli che si progettano solo ed esclusivamente per portare a fare un giro i sandali nuovi mai messi in città. Molto prima di partire progetti di sfoggiare il prendisole, il cappello di paglia e tutti quegli articoli che quotidianamente riponi nell’armadio nelle giornate a portata di computer e non di lido. Poi arriva, effettivamente, il momento della partenza. E si va in crisi. Perché la valigia è l’esame di maturità antropologico per noi indecisi e disorganizzati.
Guardi il vuoto e cominci a mettere dentro, spesso a caso, raramente provando gli abbinamenti prima della partenza. Un viaggio di quattro giorni e due sere richiede almeno sei completi da sera. Perché puoi prevedere che cosa potresti indossare ma è tuo dovere, dopo anni di convivenza con te stessa, sapere che ogni sera potresti sentirti la pancia gonfia o essere di umore pessimo. E in quei momenti si può solo attuare il piano B. Ecco spiegato, cari maschi, perché noialtre viaggiamo con dei container e poi indossiamo sempre le stesse scarpe.
Sembrerà strano ma ogni volta che sbircio la vita Instagram di Chiara Ferragni mi domando come faccia ad avere sempre in valigia la cosa giusta e ammiro la metodicità, la freddezza e la sicurezza di sé necessarie ad ottenere quel risultato invidiabile.
Certe volte il destino è burlone e può capitarti di ritrovarti, proprio pochi giorni prima della partenza, una serata completamente sola, di quelle in cui puoi sparpagliare i vestiti dappertutto perché nessuno ti disturba e riflettere su cosa mettere, quando e perché. La casa è silenziosa e vuota, mantieni il tuo proposito di dieta e mangi poco e velocemente. Potresti approfittare per impostare anche le valigie delle bambine, sistemare i cassetti in cui sembra abbiano frugato dei gatti, farti una lista delle cose da non dimenticare. Oppure aprire il computer e impostare (mai finire, sia chiaro) alcuni lavori rimasti indietro. Potresti fare tutto questo e lo farai, ma prima perché non concedersi dieci minuti di Temptation Island? Lei lo lascia, lui la mette alla prova, i single sono costretti a subire i lamenti di accoppiati cornuti e infelici. Una perdita di tempo assoluta, irresistibile e antropologicamente formativa.
Partirò con tante cose sbagliate in valigia. Ma avrò certamente tutto il necessario per un falò di confronto.

mercoledì 17 luglio 2019

Scrivanie nostalgiche


Il capo micragnoso, il collega che mastica il chewing gum rumorosamente, quello che non offre mai il caffè, quello che crede di avere una vita interessante da raccontare, quello che scrive email invece di girarsi a parlare, quello che alle mail non risponde mai. Persino quello con l’alito invadente e persino le battute tristi che quell’altro ti costringeva ad ascoltare. La mensa, anche, e la sua linea di pizze gommose una volta a settimana o il menù asiatico che ci ha fatti stare male a turno tutti. Mancano tutti, manca tutto.
Non c’è persona che non si lamenti del proprio lavoro e non c’è persona che, cambiato ufficio, non passi gran parte del proprio tempo a pensare quanto si stesse meglio prima. Mancano i colleghi con cui si fumava una sigaretta pur di sfuggire ai discorsi degli altri, mancano quelli che bisognava trascinare a pranzo ogni volta. Mancano quelli che, se ne accorge più facilmente chi se ne va, tra un caffè e l’altro erano diventai amici. Mancano persino tutti i motivi per cui si era deciso di andarsene.
La solita breve e super accurata indagine rivela che l’effetto nostalgia attanaglia tutti quelli che cambiano lavoro. Spesso vanno incontro a stipendi più alti e promozioni eppure passano un tempo variabile tra i due e i tre mesi a pensare quanto si stava meglio stando peggio. Pensavo che fosse la solita sindrome di noi over trenta, affezionati al lamento quasi quanto ai nostri telefoni. Del resto, uno dei segnali che la sindrome è pieno svolgimento è la scelta di rimanere nei gruppi WhatsApp di un tempo, continuando a commentare le performance degli ex capi e continuando, in fondo, a sentirsi un po’ parte del mondo di prima.
In molti i casi i colleghi smarriti hanno ragione. Prima si stava meglio. Il nostro istinto preferisce sempre il conosciuto al brivido delll’ignoto. Anche se l’ignoto è una macchinetta del caffè diversa da quella precedente. «Non è un posto normale», assicurano gli amici prima di iniziare a lamentarsi di quello che succede tra le quattro mura del proprio ufficio. Di solito rispondo che i posti di lavoro normali non esistono. Al pari delle famiglie normali. E dei paesi normali. Di normale non c’è nulla. Se non la tendenza, incrollabile, a rimpiangere i mondi conosciuti per paura di quelli nuovi. Il rimedio è lo steso del caldo: pazienza e sangue freddo.  

lunedì 8 luglio 2019

Copritevi, è estate


Da Ticino7 del 5 luglio 2019
Un ex collega, particolarmente sensibile al fascino femminile, cominciava con i sudori freddi da maggio, con i primi caldi che stimolavano outfit sempre più audaci nelle ragazze dell’ufficio. “Troppe ragazze belle in questa società”, sbuffava tra le nostre frasi di disapprovazione condite di “impara a controllarti”, “ci vestiamo come vogliamo” e sprezzanti “non hai mai visto un paio di gambe abbronzate?”. Con l’andare del tempo (e soprattutto con l’aumentare del caldo) iniziavamo progressivamente a vacillare nelle nostre vestiarie estive certezze. Forse la minigonna è un po’ troppo, forse in canottierina è meglio andarci al mare e poi: mamma non ci aveva insegnato che le infradito si portano in piscina? Il fatto che gli esempi citati riguardino tutti il sesso femminile è solo un dettaglio. Le donne, infatti, hanno infinte modalità di sbagliare abbigliamento d’estate, mentre ai maschi basta presentarsi in ufficio in braghe corte.
Qualche settimana fa, la direzione di una scuola che conosco ha ammonito studenti e professori per non aver rispettato le regole in fatto di outfit. Una circolare ha spiegato che sono stati osservati, nell’ordine: 20 uomini con calzini che non coprivano le caviglie, 10 minigonne, 32 scarpe sportive, 23 jeans di colore non permesso, 7 t-shirt e 2 shorts.
A pochi giorni dall’inizio dell’estate una persona di cui non posso svelare il nome, ma di cui posso fidarmi come di me stessa, ha tenuto una sessione d’esame all’università. Al termine della giornata non sapeva decidere se fossero più preoccupanti i refusi di cui era infarcita ogni presentazione, gli sfondoni in inglese e in italiano o gli shorts, i bermuda e le canottiere da mare dei candidati.
L’amica dice di non essersi fatta influenzare ma uno dei voti più alti lo ha dato a una delle poche che indossava una camicia. E io credo abbia fatto bene. Mi direte che sono all’antica. Mi direte che parliamo di giovani, di creativi e soprattutto di 38 gradi all’ombra. Poi però non lamentatevi se tra qualche anno i vostri figli andranno alla maturità in braghe corte e infradito. La forma è sostanza. Anche con 38 gradi all’ombra, signora mia.