domenica 9 gennaio 2022

2022, io esco

Da Ticino7 dell'8 gennaio 2022

Contro la chat di classe esiste una letteratura incredibilmente ampia e condivisa. Non c’è genitore che non ne possa elencare, spontaneamente o su richiesta, la fenomenologia, i tic, la popolazione caratteristica e ricorrente.

Non mancano mai, infatti, alcune figure centrali allo svolgimento dello spettacolo, come in una tragedia greca. Ci sono i genitori divorziati che si punzecchiano a distanza, le rappresentanti di classe volenterose, i principi del foro che avrebbero un sacco di idee per ammodernare la vecchia e polverosa dirigenza scolastica, le spacciatrici seriali di gif e cartoline di auguri, i disinteressati cronici che si fanno un punto di onore di aver sempre visualizzato senza mai rispondere, le gazzette dell’istituto pronte a riportare ogni voce di cortile, i polemici in servizio permanente, in grado di scagliarsi con eguale veemenza contro il brodo insulso servito ai bambini per pranzo, la mole eccessiva di esercizi di matematica, il metodo di insegnamento della prof di inglese (“ma quale metodo? Qui si deve parlare senza mezzi termini di tirannia, signori e signore”). 

Alla chat di classe si applica la regola aurea dei talk show e della tv spazzatura: guardarli è un modo per sentirsi sempre i migliori. “Ma quanto tempo hanno da perdere?”, ci chiediamo condividendo le ultime assurdità con amici che hanno pochissimo tempo quanto noi.  

Di questi tempi la “community” si aspetta di essere informata su ogni raffreddore, vaccino, tampone, situazione familiare. “Mariuccia ha incontrato un cuginetto fratello di un contatto di un positivo, ma sono passate 72 euro e non ha neppure un po’ di mal di testa, siamo sereni”. “Siamo sicuri che tizia possa davvero rientrare a scuola?”. “Perché il risultato del tampone non è stato condiviso?”. “In che giorno esattamente è stato effettuato l’esame?”.

La sempreverde polemica sui regali di Natale al corpo docente risulta improvvisamente superata dalle pretese assurde di condivisione, scrupolo e cautela. È in quell’esatto momento che le decisioni drastiche non fanno più paura. Soppesi le conseguenze, sai che ti mangerai le mani al primo compito non chiaro su cui non potrai chiedere lumi a nessuno, ma ti fai forza perché ciò che è giusto è giusto. Abbandoni il gruppo provando un brivido di sollievo. Volevamo fare la rivoluzione e siamo finiti a sentirci eroi per aver abbandonato la chat di classe. Ma in fondo esistono modi peggiori per iniziare l’anno, no?

Capodanno, la Stube e i balli di gruppo

 Da Ticino7 del 31 dicembre 2021

I Capodanni che ricordo con maggiore entusiasmo sono quelli della mia infanzia da Cinepanettone anni Ottanta, quando si partiva il 26 con ancora la tavola apparecchiata dei bagordi coi parenti, le cartelle piene di compiti che avremmo fatto non si sa quando e gli sci attaccati sul tetto della macchina (no, non eravamo gente che affittava: erano gli anni gloriosi e lontanissimi in cui ancora si dava un valore alla proprietà privata e non allo sharing). Erano gli anni dello skipass con la foto, attaccato alla giacca a vento con un aggeggio con terminale elastico che rischiavi regolarmente di tirarti in faccia al momento dell’ingresso nella seggiovia. Non so come siamo finiti ad essere famiglie che vanno in ferie a mezze giornate, il 24 pomeriggio per finire i regali, il 26 mattina per sistemare la casa. I miei genitori chiudevano i battenti il 23 e di tutto si riparlava dopo il 6 gennaio. In mezzo, solo parenti e vacanze sulla neve. Ovviamente in comitiva con almeno 4-5 famiglie con figli di tutte le età che colonizzavano un albergo sperduto sui monti. 

In quel contesto in cui tutto era nostro, il Capodanno era una giornata di sci matto e disperatissimo con rientro in albergo leggermente anticipato per i riti in preparazione alla serata. Il nostro piano si trasformava in un salone di bellezza e con spazzola e asciugacapelli le madri si facevano la messa in piega a vicenda. Il cenone compreso nel prezzo non ti lasciava tregua, ma per noi bambini la cosa più bella era la serata danzante nella Stube dell’albergo. Tra Siamo i Watussi e Dai Fiordi della Norvegia imparavano la gioia dei balli di gruppo e osservavamo con incredulità fratelli e cugini adolescenti che non ballavano e stavano tutto il tempo a chiacchierare: l’anno dopo avrebbero insistito per fare Capodanno a casa con gli amici di scuola e noi bambini avremmo ricominciato a seguire i genitori in cene interminabili e prive di balli.

Quando abbiamo smesso di essere bambini abbiamo iniziato a snobbare il Capodanno, proponendo serate alternative in casa, arrivando persino a sposare gente che ci seguisse nella nostra mezzanotte in viaggio in autostrada. Il problema è che adesso i bambini hanno l’età che avevamo noi allora e quella voglia irresistibile di Stube e balli di gruppo. Affitteremo una casa vacanza. Solo per 24 ore ovviamente.

Schivare gli auguri

 Da Ticino7 del 24 dicembre 2021

Dio solo sa con quanta fatica abbiamo guadagnato l’arrivo sull’orlo di questo periodo in cui tutto cambierà per restare uguale. Il brodo, i cappelletti, la tombola, i soldi spicci, quel tempo dilatato e sonnacchioso in cui si sente la mancanza dei morti, si contano i vivi e si scuote la testa. Quest’anno rischiamo di non dover tirare fuori le panche e la cosa non ci va giù. Parleremo male a bassa voce dei cugini non vaccinati, del resto ci sono sempre dei parenti di cui spettegolare e con quelli non vaccinati caschiamo piuttosto bene.

Arrivare a questo giorno ci è costato innanzitutto settimane di sorrisi accondiscendenti come risposta ai colleghi che chiedono: ci sarai all’evento aziendale? Tu vorresti rispondere che se a casa non tiri fuori le panche per la gragnuola di zie che ti ritrovi non si vede perché dovresti farlo per gente con cui passi già otto ore al giorno della tua vita. Gli strappi un sorriso ma anche un’occhiata diffidente: sei pur sempre la cinica che non partecipa ai team building e ai karaoke, pensi tutto l’anno come schivare i ritrovi comunitari e finisci per trovare sempre una scusa all’ultimo minuto. Due anni di pandemia avevano abituato i peggiori di noi a rilassarsi e a non trovare più scuse multiple per defilarsi. La regola d’oro, spiega la bidonara asociale che è in me, è esporre sempre una singola motivazione, altrimenti la gente senta puzza di bruciato. Perciò mai dire “non mi sento tanto bene e la babystitter non l’ho trovata”, ma andare giù secche e senza paura: “La babysitter è partita per un mese di vacanza”. Con il Covid il problema si è risolto alla radice, incutendo terrore anche negli organizzatori di eventi aziendali più accaniti ed entusiasti. Di fronte alla prospettiva di una festa senza karaoke e tombolata selvaggia hanno desistito, eppure quest’anno sembrano aver ritrovato la verve. Tu non puoi nemmeno addurre una febbriciattola passata dalla prole altrimenti scatta il piano protezione contagi e invece che la pace guadagni la gogna. Questo Covid ci costringe alla peggiore delle scuse, quella doppia e carpiata: “Ho una po’ di febbre e il tampone è negativo, ma meglio restare a casa”. Solo così, con lo spettro del falso negativo, ti lasceranno in pace. A lasciare a qualcun altro il posto al karaoke e parlare male dei cinici che non ci sono mai.

Amarsi non significa mai dire “mi dispiace ma non trovo lo scontrino di cortesia”.

 Da Ticino7 del 18 dicembre

Quando le pubblicità che ti compaiono navigando su internet sono quelli per i regali di Natale fai da te e sostenibili, è il momento di farsi delle domande. Lo stesso va fatto quando le amiche, ritenendoti depositaria di qualche capacità strategica, ti danno indicazioni precise sui regali da suggerire ai rispettivi compagni e mariti. Cerchi di obiettare che non hai alcuna autorità in materia, racconti che l’ultima volta che hai risposto alla richiesta di aiuto di un marito in crisi per il regalo alla moglie hai rischiato di rompere un’amicizia perché la marca era giusta (Lanvin, come poteva non esserlo?) ma le dimensioni della borsa giudicate assolutamente inadeguate. Così l’amica ha vissuto un Natale di delusione e alla fine ha cambiato il regalo. Del resto, in queste settimane l’amore si misura così: se mi ami, puoi cambiarlo. Perché amarsi non significa mai dire “mi dispiace ma non trovo lo scontrino di cortesia”.

Torniamo al dunque, qualunque esso sia, e alla richiesta dell’amica di turno di orientare la scelta del marito nella selva dei regali possibili. “Vedi – ti dice con aria losca – proprio ieri mi si è rotto l’aspirapolvere”, come a suggerire che quello debba essere il regalo. La filippica parte da lontano e da quella vecchissima pubblicità di Pandora, azienda produttrice di ammenicoli di gioielleria, che tappezzò le grandi città con la scritta: “Un aspirapolvere, un pigiama, un grembiule, un braccialetto di Pandora. Secondo te cosa la farebbe felice?”. La bufera che oggi si fa su Renatino e lo spot del Parmigiano Reggiano, dove l’operaio racconta la vita di colui che lavora 365 giorni all’anno con il sorriso sulle labbra e senza avere mai visto Parigi, è niente se paragonata a quello che si scatenò contro Pandora. Mentre io mi scateno contro il sessismo che è dentro di noi e dobbiamo combattere, l’amica mi guarda con aria vuota. Lei voleva solo che qualcuno sostenesse la spesa di un Folletto nuovo e funzionante. Nel sacro furore del mio me-too domestico aumento l’intensità delle filippiche e la spingo a desiderare un regalo di gioielleria. Il Folletto va giudicato come una spesa di famiglia, mai e poi mai equiparato ad un regalo. È contenta, felice. Il sorriso si spegne solo quando il marito si dirige verso il centro assistenza Folletto più vicino. Perché cambiarlo, dopo tanti anni di onorato servizio?


Ho la tosse e non ho più scuse

 Da Ticino7 dell’11 dicembre 2021

Che certe settimane non saranno quello che avevi prefissato devi capirlo al primo brivido di freddo. Un colpo di tosse, un po’ di mal di gola, la mascherina che non si toglie mai dal naso in ufficio. “Meglio se mangio da sola così non rischio di contagiare nessuno”. Poi via a casa il prima possibile, a condividere unicamente coi parenti stretti tutto il non identificato corredo di germi, batteri o virus (questa pandemia sembra durare da sempre e noi sembriamo non aver capito mai). Le creature come sempre festeggiano perché quando l’adulto è fuori uso la televisione è libera e senza freni, Netflix è a portata di mano, la pasta all’olio (da sempre piatto preferito) sdoganata per tutti i pranzi e le cena in cui il termometro della mamma supera abbondantemente 39. Nel delirio della febbre occorre organizzare i giorni a seguire. Sarà Covid? Non lo sarà? 

Il maschio di casa si lancia in invettive non richieste sulla superiorità dell’Aspirina sulla Tachipirina mentre un vocale rauco arriva alla tata perché resti a casa. Il responso negativo del tampone non autorizza nessuno ad abbandonare la cautela, vero? Non vorremo mica che si dica in giro che siamo dei pericolosi irresponsabili? Vogliamo forse fidarci così tanto dei tamponi? Del resto, a tossire in pubblico si rischia la morte per vergogna. La signora delle pulizie resterà a casa tutta la settimana, la febbre sale alla sola idea della pila dei panni da stirare che aumenta a dismisura. Le bambine vanno a scuola ma non vedono nessuno nel pomeriggio. Tanto c’è la televisione.

Il circo dura un giorno fino a che la grande torna a casa con la febbre. In meno di un pomeriggio se la sfanga, ma la cautela impone di stare a casa almeno tre giorni senza febbre. La madre intanto continua a rantolare nel letto, non aveva 39 dai tempi delle elementari. Quei tempi meravigliosi che sta vivendo la bambina sul divano, avvolte nelle coperte, con il telecomando in mano e l’unico obiettivo di battere il record di permanenza in pigiama. 

Avere l’influenza da adulti è una delle rogne più tremende che si possano avere. Soprattutto in tempo di pandemia, quando non si può neppure tornare in ufficio prima del tempo per sfuggire alle incombenze di una casa di malati.

Ma su questo davanzale c'è una renna!

 Da Ticino 7 del 4 dicembre 2021

Ciao, posso farti una domanda?”. Quando una vicina di casa ti rivolge una frase del genere, non puoi che pensare alle urla, alle scenate, alle sessioni di aspirapolvere e appendimento di quadri ad ogni ora del giorno e della notte. Persino le bambine percepiscono l’arrivo di una ramanzina evitata miracolosamente per anni. Tu già pensi che appena sarete sole gliene dirai quattro: perché la valigia con le ruote non può essere utilizzata come uno skate e battere la scopa sul pavimento come lo scettro della Regina di Cuori non è consentito in un condominio. Nei pochi secondi in cui cerchi il coraggio per affrontare lo sguardo e le ragioni della vicina di pianerottolo ti riprometti che farai del tuo meglio, che smetterai di ascoltare audiolibri al massimo volume all’alba e imparerai le regole del buon vicinato.

Alzi lo sguardo, pronta ad affrontare la tempesta. “Scusa, ma come riesci a far passare le lucine di Natale da una finestra all’altra?”. Il terrore si scioglie sole e lascia immediatamente spazio alla soddisfazione più piena e compiuta di un largo sorriso. Ci sono voluti anni, anni di alberi di Natale condominiali e ghirlande appese alle porte ma finalmente ci siamo: siamo diventate un riferimento per gli addobbi nel vicinato e il fatto che questo faccia spesso rima con trash è una ulteriore medaglia al valore.

Rispondiamo con foga e orgoglio: perché sognavamo di avere un terrazzo di questi tempi, ma il destino si è girato in maniera imprevista e siamo ancora qui con queste tre finestre lato cortile. Ma questo non significa che il progetto Rockefeller Center urbano debba essere abbandonato. Così abbiamo fatto passare un unico filo di lucine da esterno da un davanzale all’altro, con l’aiuto di un marito e di un bastone per appendere gli abiti nell’armadio. Ma perché non puntare sempre più in alto? Così quest’anno, che doveva essere ricordato per le lucine sui davanzali e il muschio vero sul presepe dopo anni di carta prato, improvvisamente ha conosciuto un balzo di qualità con l’arrivo di Giuliana, la renna luminosa che da circa tre settimane (noi l’albero lo facciamo come Chiara Ferragni, all’inizio dell’avvento ambrosiano) fa bella mostra di sé sul davanzale principale, contendendosi lo spazio con un basilico incredibilmente sopravvissuto all’autunno. Natale metafora di una vita priva di senso della misura: perché scegliere, quando si può aggiungere?

Diana e i nostri vestiti della vendetta

Da Ticino7 del 27 novembre 2021

Un po’ come il greco e il latino (e come Beautiful), Lady Diana ci ha dato il metodo e le categorie per imparare a leggere il presente. Ed è proprio di una di quelle categorie, da Diana sommamente inaugurata e certamente codificata, che si è tornato a parlare nelle ultime settimane: il revenge dress, tornato in auge perché presente nella stagione di The Crown attualmente in corso di realizzazione. L’espressione viene usata per descrivere un abito indossato da Diana alla festa della Serpentine Gallery nel 1994. Quella sera sarebbe andata in onda un’intervista al principe Carlo in cui lui ammetteva l’infedeltà di cui tutti sapevano. Pare che in occasione di quella festa Diana dovesse indossare un altro abito, di Valentino, e all’ultimo momento decise di cambiare dicendo al suo stylist che voleva assolutamente splendere. E lo fece, tirando fuori dall’armadio un abito di chiffon nero della stilista greca Christina Stambolian, ben sopra il ginocchio, con un piccolo strascico e soprattutto le spalle completamente scoperte, contro ogni cerimoniale di corte. Con quelle spalle scoperte Diana anticipava, via scelta di guardaroba, il terremoto che sarebbe culminato con la famosa intervista alla BBC circa un anno dopo, quando definì il suo matrimonio “troppo affollato” decretando la rottura definitiva con la casa reale.

Ora la domanda, che affligge noialtri meno famosi (e meno mitomani) di Diana che se la prendeva – nientemeno – con la monarchia britannica, è se anche nel guardaroba dei comuni mortali debba esistere un revenge dress. L’abito del riscatto, l’outfit per mostrare perfetti fuori anche se distrutti dentro e iniziare così una rinascita, petto in fuori e spalle scoperte verso la vita. 

Le amiche interpellate dicono che nessuno merita il nostro rancore, che ci vestiamo per noi stesse, che non dobbiamo dimostrare niente a nessuno. Salvo poi rivelare infinite variazioni sul tema del revenge dress, con il cappotto da gran signora per tornare dal capo che ti ha licenziato, la cintura strettissima e il respiro trattenuto per chi ti ha mollata per una più magra. Per far fronte a tutto questo non vorremmo solo un revenge wardrobe con abiti e accessori di ogni taglia (la vendetta è un piatto che va servito freddo e non è detto che dall’inizio del pasto non si sia preso qualche chilo), neppure uno stylist (abbiamo la pretesa di fare tutto bene da sole), ma un red carpet. Un contesto neutro, anche se a prova di flash, in cui metterci in mostra e arrivare preparate. Sempre meglio che incontrare qualche mostro del passato uscendo dall’autobus, quando l’unica vendetta a cui pensi è quella contro il signore che ti ha pestato un piede mentre arrancavi verso la porta. 

 


Il parrucchiere, il mestiere più usurante del nostro tempo

Da Ticino7 del 13 novembre 2021

Il mondo si divide tra quelle che vanno dal parrucchiere una volta a settimana, quelle che assolutamente una volta al mese per coprire i bianchi e quelle che si ostinano a ragionare come le ventenni di una volta e dal parrucchiere ci vanno un paio di volte l’anno credendo di avere un capello con cui non vale la pena accanirsi né perdere tempo.

Nel primo caso il parrucchiere sa sempre cosa fare e non ha bisogno di indicazioni. Periodicamente rinnova, ma settimanalmente è attento custode dello status quo, dovere a cui assolve chiacchierando del più e del meno con la cliente che, evidentemente, osserva religiosamente il comandamento di mia zia: con la messa in piega fatta e una buona borsa puoi vestirti come vuoi e sarai sempre elegante. 

Le accanite contro i bianchi, invece, non hanno il tempo per chiacchierare con il parrucchiere, si limitano a condividere il disagio, la sorpresa e il disappunto per essere dovute tornare a fare la tinta prima del previsto, ricordano che fino a pochi mesi prima bastava qualche ritocchino ogni tanto, deplorano il proliferare dei capelli bianchi, scuotono la testa pensando all’età che avanza, per un momento pensano a chi ha deciso di liberarsi da questa schiavitù e lasciar libro spazio ai capelli grigi. “Figuriamoci, io non potrei mai”, chiudono dopo un brevissimo momento di tentazione. Il mese prossimo ricomincerà tutto daccapo, ma per il momento vanno a casa felici, con quella sensazione di bellezza e benessere che solo una chioma fresca di parrucchiere può regalare.

Sensazione che le frequentatrici meno assidue apprezzano in eguale misura. Ogni volta che si decidono ad andare dal parrucchiere si scherniscono: eh, sai che io vengo raramente. Il parrucchiere fa quel che può, sa di avere a disposizione un’unica carta e non deve dimenticare nulla: spuntare, rinnovare, dare un tocco di brio. La malcapitata regolarmente apprezza i propri capelli cambiati da mesi di incuria: ma chissà che non sia il caso di lasciarli più lunghi che dici? E il colore? In fondo questo naturale non è carino? Con la doclezza che si riserva a un bambino capriccioso, lui ascolta metabolizza, propone e rilancia. Lei guarda stordita e aspetta domandandosi come si possa dare luce senza schiarire, tagliare mantenendo il perimetro. È tranquilla perché lui promette forma, volume, novità, sostanza. Esce bellissima ripromettendosi di tornare prima del previsto. Come ogni anno sogna di entrare nel campionato di quelle che, dal parrucchiere, ci vanno una volta a settimana.


Si scatenino i commenti sulla mensa, signori e signore

 Da Ticino7 del 13 novembre 2021

Nina mangiava volentieri i legumi tre volte a settimana e ora torna a casa insoddisfatta. Anche Gigetto non ha mai avuto problemi sul cibo, ma da quando a scuola viene proposto un solo tipo di frutta è deluso e incattivito. Le merende sono piene di zuccheri (qualcuno giura di aver visto addirittura dei wafer al cioccolato), le creature innocenti sono esposte – addirittura - a cibi processati. Come ogni autunno, nella chat di classe arriva l’indagine di gradimento sulla mensa scolastica e come ogni anno la crociata contro lo zucchero unisce le madri più diverse: coguar in tacco dodici, tik toker in mocassino senza calze, signore in scarpa comoda. Tutte insieme chiedono a gran voce più lenticchie per tutti. Le mie preferite sono quelle contrarie a pizza e piadina con la motivazione più giusta che esista: se già la scuola mi usa il salvacena cosa faccio io? Vorrei dar loro una pacca sulla spalla, spiegare che le capisco, che il primo anno di scuola mi sentivo male quando giocavo la carta pasta al pesto già il lunedì e quando ordinavo la pizza nello stesso giorno in cui la mangiavano a pranzo. Però passa, come la gran parte delle cose nella vita, i bambini crescono, i sensi di colpa diminuiscono vertiginosamente e i problemi si risolvono: provate, figliole, a mettere anche una bella piadina per merenda e assaporerete la libertà. Vorrei raccontarvi anche delle infinite gioie del pane a lunga conservazione nascosto in qualche angolo della dispensa, ma siete ancora troppo sensibili. Ci arriveremo, con il tempo.

Ammetto che vivo momenti in cui sono tentata di abbandonare questo mio cinismo ironico, ammettere che ho anche io i miei lati oscuri, che ho cucinato in casa dei pangoccioli e ho appena sfornato delle chips di cavolo nero. Soprattutto, vorrei lanciare nuovi temi, smettere di alzare il sopracciglio pensando che le aspetto al varco (fino a tre anni fa l’attuale consumatrice numero uno di Nesquik in casa nostra mangiava con gusto polpette di ceci) e ingaggiare una discussione seria e informata: è mai possibile che siamo fissati sull’origine dei polli, che facciamo le crociate contro gli allevamenti intensivi e gli antibiotici e accettiamo che qualunque cosa ci venga consegnata a casa a qualunque ora da persone pagate una miseria?

Mi ripeto di smetterla e allora infrango il mio primo comandamento (mai intervenire nella chat di classe) con il solito e annuale commento passivo-qualunquista: “Mangiano comunque sempre meglio a scuola di quanto facciano a casa”.



Essere indietro su tutto

Da Ticino7 del 6 novembre 2021

Essere indietro su tutto, indiscriminatamente, è un’arte. Indietro sulla presentazione chiesta dal capo, ovviamente iniziata ma parcheggiata nella cartella work in progress del computer che prima o poi troveremo il tempo di riordinare. Essere indietro sulla spesa e aver giocato le carte jolly pesto e pasta all’olio già al martedì. “Perché la verdura tanto non la mangiate, vero?”. Essere indietro sull’ultimo stralcio di cambio dell’armadio e ripromettersi che questa sarà l’ultima settimana in cui rovistare nella scarpiera ogni mattina per identificare scarpe pesanti in mezzo a una selva di infradito. L’ultima in cui scriveremo sul diario alle maestre per scusarci dell’ennesimo articolo dimenticato che certamente ci ricorderemo di procurare per lunedì. Essere indietro sulle risposte a quei fornitori che ci scrivono da settimane. “Possiamo risentirci lunedì?”. La settimana prossima, dopo il ponte, dopo le vacanze, dopo, dopo, dopo.

Nei periodi in cui l’essere indietro su tutto è più invadente si moltiplica la ricerca di ritagli di tempo in cui recuperare, accorciare le distanze, mettersi in pari. E allora cominciano le sveglie la mattina alle quattro, i sonnellini dalle 21 alle 22 che consentono di svegliarsi a sera inoltrata e restare in piedi fino a tarda notte. A cincischiare, ovviamente, perché in questi momenti che dovrebbero servire agli sprint definitivi buona parte del tempo trascorre con le mani nei capelli a pensare che non ce la faremo mai. Siamo poi gli stessi che ogni giorno incoraggiamo la bambina oppressa da un compito punizione: “Con la pazienza si fa tutto”, ripetiamo sempre razzolando nell’incoerenza (del resto sappiamo che questa storia che i bambini si educano con il buon esempio è sopravvalutata e continuiamo a lavorare perché siano migliori e possano scampare alle nostre nevrosi). 

Siamo indietro, ovviamente, anche con i regali di compleanno. Domani è il grande giorno e il regalo non è ancora arrivato, la torta neanche, all’ultimo secondo chiamiamo il ristorante implorando uno strapuntino. Le bambine hanno deciso all’ultimo il disegno da fare ma non hanno ancora tracciato neanche una riga. Poi, la mattina, prima di fiondarsi fuori di casa per andare a scuola pregando il cielo di non fare tardi anche oggi, presentano il disegno pronto: “Sai mamma, è incredibile. Non faccio niente per giorni e poi all’ultimo secondo la situazione svolta”. Esempio o no, certe abilità devono essere ereditarie.

Datemi il magnesio e sorriderò al mondo

 Da Ticino7 del 30 ottobre 2021

La mattina successiva alla notte in cui ho sognato una rana, prontamente identificata su Google come segno di buon auspicio, cambiamenti positivi e fertilità, mi sono ricordata di non aver preso per mesi il magnesio, efficace contro il nervosismo e l’ipocondria. Non era dunque l’autunno inoltrato, non la noia della vita normale a generare questo senso di impotenza e inconcludenza che certamente qualche rivista americana ha già codificato e legato in qualche modo ai social network. Era solo, semplicemente, una questione chimica. Come con gli stronzi numero uno, due, tre. Come quando la stronza eri tu e sottostimavi il potere di integratori e medicinali.

Tra noi ragazze il magnesio diventa popolare quando i vent’anni sono lontani ma non troppo, quando iniziamo ad occuparci di noi stesse e ad ascoltare i consigli di quelle sempre informate, che leggono riviste e ascoltano podcast, che idratano i talloni da sempre e hanno un detersivo preferito dai tempi dell’università. Le ninja degli integratori, insomma, sono ninja anche nel resto dei capitoli della vita, arrivano preparate dove noi atterriamo in ritardo e senza convinzione. Il magnesio, ovviamente, è solo l’inizio.

Tra gli indispensabili figurano anche gli integratori per capelli, rafforzanti e anti caduta, vitali durante quelle mezze stagioni che non dovrebbero più esistere eppure sono violentemente sentite dal nostro corpo. Non pervenuti, per inutilità manifesta, gli integratori per dimagrire. 

Quando dagli integratori si passa ai medicinali dimenticarsi non è contemplato. Così l’accessorio dell’anno diventa in breve tempo il dispenser di medicine: mia madre ne ha comprato uno a mio padre con un cassettino per ogni giorno della settimana, con l’ulteriore divisione tra colazione, pranzo e cena per ridurre al minimo le possibilità di sbagliare. Alle 13 inizia nei cellulari di entrambi un allarme per ricordarsi l’ennesima medicina, la più importante. Pospongono la sveglia per volte infinite e quasi sempre fanno merenda insieme con Cardioaspirina e Leviaprost.

Non so davvero dire se il benessere, così importante ai nostri tempi, sia più legato alle medicine, agli integratori o all’avere qualcuno che ti ricorda di prendere qualunque pastiglia tu debba prendere. Qualcuno con cui discutere per venti minuti, fino a che uno non si ricorda il nome del maledetto integratore della memoria da ordinare in farmacia.