giovedì 25 giugno 2020

A proposito di citazioni

Da Ticino7 del 20 giugno 2020

“Non faccio le proiezioni di prova dei miei film. Non sono interessato al contributo degli spettatori. Una volta che ho finito, non voglio sapere altro”.

“Ho sempre odiato la realtà, ma è l’unico posto in cui si trovo gustose ali di pollo”.

“L’inferno sono gli altri, ha detto Sartre. Preciserei: l’inferno sono i gusti degli altri”.

“Essere un paria presenta alcuni lati positivi. Per esempio, non ti chiedono in continuazione di partecipare a talk show, scrivere frasi di elogio per un libro, salvare le balene, pronunciare discorsi di inizio anno”.

 “Come riassumere la mia vita? Tanti stupidi errori compensati dalla fortuna”.

Per chi si avventura nella biografia di Woody Allen (A proposito di niente, La nave di Teseo) il bottino di citazioni diffondibili sui social è ghiotto. La si compra perché è in bella vista in libreria, perché gli altri ne parlano, per leggere la versione del maestro sul famoso scandalo che lo ha investito e messo nella lista degli impresentabili, con decine di attori che si sono detti pubblicamente pentiti per aver lavorato con lui dopo le accuse di abusi sessuali sulla figlia adottiva Dylan. A questo punto dovrei ricostruire per il mio pubblico l’intricato complesso di relazioni tra Woody, Mia, i figli adottivi di lei, il figlio naturale dei due, le compagne precedenti, la compagna attuale (Soon-Yi), già figlia adottiva della Farrow e diventata a poco più di vent’anni amante del regista e oggi ancora al suo fianco come legittima moglie. Vorrei dirvi quello che penso e l’idea che mi sono fatta, ma ho preferito dedicare queste righe a fornirvi citazioni da sfoggiare in società o sui social, che sembra ormai essere l’unico motivo per cui si legge un libro. Vi raccomando soltanto di tenere per ultima la citazione che segue. Premettete che non siete grandi esperti di Woody Allen, ma ne apprezzate il cinismo comico, l’irresistibile vuoto di senso, l’ironia e – ovviamente – il cast. Poi concludete con le poche parole che rivelano che siamo tutti uguali, davanti alle tragedie della vita, alla morte e alle televendite.

“Se potessi tornare indietro, cosa non farei? Comprare l’affettatutto che ho visto in televisione”.

Il galateo della distanza

Da Ticino7 del 12 giugno 2020

I titolari di relazioni complicate sanno bene che finché l’odio, il dolore e la paura la fanno da padrone non ci sono grandi possibilità di errore. Con i ponti tagliati di netto e nessuna possibilità di cenni di pace, si può sperare nell’autoconservazione dell’intransigenza. Poi passa il tempo, arriva la distensione fisiologica, voluta o logisticamente provocata (“e siccome è facile incontrarsi anche in una grande città”) qualcosa cambia destabilizzandoci. Allora salutarsi significa rivolersi? Lei capirà che stai solo cercando di essere educato o riprenderà a telefonarti di notte? Lui capirà che vuoi solo recuperare i vestiti e le creme lasciate a casa sua e non intendi restare un secondo di più? E se davvero mettendo in borsa quell’antirughe di cui hai fatto a meno per un anno ti venissero idee malsane?

Sicché finito il lockdown (sì, continueremo a parlarne come accade con quelle relazioni complicate destinate a diventare pietra di paragone per tutto quello che viene dopo) qualunque cosa diventa un gesto politico. Uscire ancora poco e solo per necessità ti mette nella categoria di quelli che non l’hanno ancora superata. Uscire, dicono, è invece la cosa normale e giusta da fare. Certo, con misura. Ora che non ci sono regole stringenti e che bisogna affidarsi al buon senso, tutto diventa pericoloso. La mascherina, se la metti, sei ipocondriaco, cauto o italiano? L’aperitivo se lo fai con tre persone va bene ma con cinque sei un pericoloso sovversivo pure stronzo perché vanifichi mesi di sacrifici di una nazione? Nel dubbio, dicono, meglio andare in barca (del resto essere ricchi aiuta sempre). Le foto, soprattutto. Qualche giorno fa Martina Colombari ha pubblicato su Instagram una foto con delle amiche. La didascalia era un disclaimer a prova di hater e specificava che avevano tolto la mascherina soltanto cinque minuti per fare la foto dopo essere state sedute a debita distanza per tutto il tempo.

Chi ha una certa dimestichezza con gli amori o con le diete (esperienze analoghe perché basate su un dosaggio discontinuo di generi di prima necessità) sa che la fase più difficile è quella del mantenimento. Un dolcetto, un bacio. Solo un momento vicini vicini. Solo per bere uno Spritz. E aspettare al varco il disordine che ravviva il nostro vivere.

Jack Frusciante dal gruppo all'antologia

Da Ticino7 del 6 giugno 2020

Le librerie dei genitori non ci sono mai quando servono. Oggi, che ho un Kindle per rimediare alla cronica mancanza di spazio, vorrei essere nella camera da letto che dà sul fiume e ripescare l’edizione consunta di Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Troverei sottolineate più volte le frasi mandate per anni nella memoria, da “Alex, inutile e triste come la birra senz’alcool” a “Posso sopravvivere col pilota automatico, ma vivere è un’altra cosa”. Alcuni di noi ancora rispondono “medio” quando qualcuno gli chiede come stanno, citando inconsciamente la risposta classica del signor Alex D. a cui piaceva sentire la gente sollevata quando capiva “meglio”. Enrico Brizzi, autore di quel romanzo che ha riempito i diari scolastici di coloro che oggi gravitano intorno ai quarant’anni, è enormemente responsabile anche di tutte le loro velleità letterarie.

Avevamo una quindicina di anni quando uscì il libro. Lo scriveva un nostro quasi coetaneo di allora, raccontava di due adolescenti innamorati, dei loro dialoghi letterari e musicali, ci regalava le dichiarazioni d’amore che avremmo voluto ci fossero dedicate in tutti gli anni a venire (“Lei non era una ragazza, era un intero disco di Battisti”), era uno dei primi libri che volevamo davvero leggere e rileggere e di cui nessuno ci avrebbe mai chiesto di compilare una scheda riassuntiva come compito in classe.

Ricordiamo con imbarazzo l’esperimento con Violante Placido e Stefano Accorsi, insufficiente come solo può esserlo l’adattamento cinematografico di un libro di culto e siamo sconvolti, oggi, nell’apprendere che Jack Frusciante è uscito dal gruppo è ormai considerato un classico, che ha compiuto 25 anni, si trova nelle antologie scolastiche, è riassunto e commentato in quei siti che forniscono materiale pronto all’uso per gli studenti e scomodano espressioni come “romanzo di formazione” e “narratore onnisciente”.

Insomma, il lettore si chiederà come la stiamo prendendo: la pandemia, i chili di troppo, i panni da stirare, il conto in banca prosciugato, le scoperte tardive su Jack Frusciante fuori dal gruppo e dentro l’antologia, l’egocentrismo violento di chi passa gli anta in pandemia e ritiene sia interessante per il prossimo sentirne parlare. La risposta è sempre una: medio.

Un maggio ridicolo

Da Ticino7 del 30 maggio 2020

“E scusa, mamma, quando hai comprato quel vestito eri già così?”. “Così come?”, strabuzzi gli occhi considerando che a parlare è la più benevola delle due. Disquisiamo dieci minuti buoni su un abito rosa cipria al ginocchio, motivo sangallo nelle maniche, lacci in vita. Ingenua io, che vedendolo addosso alle bambine stavo persino meditando di riprovarlo. Sarebbe stata la seconda volta che l’avrei indossato nella vita, dopo quella nel camerino di un negozio di lusso aperto alla plebe per una svendita speciale. Proprio quando stavo per decidermi a venderlo (sì, sono certa che a breve riuscirò ad essere una persona organizzata e felice e diventerò ricca vendendo i vestiti e le scarpe che non indosso più) le bambine hanno iniziato a giocarci.

Le regine e le principesse che affollano queste stanze da cui nessuno di noi sembra più voler uscire sono incredibilmente loquaci e aperte. Chiacchierano, mangiano pezzi di formaggio sedute sul letto, con un ventaglio e una pochette di Dior trafugata chissà come. Chiedono cartoni e libri, gelati e qualche giro in bicicletta. Per noi adulti il tempo è ancora infelice e improduttivo, lui dice che non può essere produttivo il tempo di chi balzella da un cellulare all’altro e scorre titoli a caso senza leggere nulla. Ho appreso con sconforto che Fabio Volo ha scritto buona parte del suo ultimo libro mentre era non so dove con la famiglia. È un uomo, penso. Loro riescono a scrivere libri e trattati in casa, mentre noi non guadagniamo neppure la privacy necessaria a farci la maschera lifting appena comprata on line. Figuriamoci per il trattamento sciogligrasso che prevede un’ora con le cosce avvolte in un tutone plasticato. Guardandoti le bambine ridono, ormai dandosi di gomito tra loro. Cercano persino l’appoggio del maschio di casa: “Ma cosa fa la mamma secondo te?”. È iniziato tutto qualche mese fa e questo lockdown sembra averci appicciato addosso il personaggio dei genitori incomprensibili, a volte buffi, ogni tanto persino insopportabili. E ci disegnano così, appesi alle nostre angosce, al tempo che non basta mai, ansiosi di arrivare al weekend perché qualcuno esca di casa lasciandoci il tempo e lo spazio di pulire come si deve. Si chiude un maggio di corsi d’inglese on line e niente palestra. Giugno non può che migliorare.

 

After life

Da Ticino7 del 23 maggio 2020

Si dice che solo i comici più caustici sappiano farci piangere davvero. Mai adagio fu più azzeccato, penserete guardando After Life, la serie Netflix di cui è autore, sceneggiatore e attore protagonista il comico inglese Ricky Gervais. Irriverente, dovremmo dire se la parola non facesse tanto anziano critico in decadenza, è un comico brillante e sfanculatore d’eccezione, abilità che ha avuto l’occasione di dimostrare più volte presentando i Golden Globe. L’ultima volta lo ha fatto nel gennaio scorso, quando ha ironizzato tra gli altri sul principe Andrea, su Jeffrey Epstein, sulle fidanzate di Leonardo di Caprio (“al termine della première di C’era una volta a Hollywood la fidanzata del momento era troppo vecchia per lui”). “Ricordate - ammoniva allora – sono solo battute. Moriremo presto e non ci sarà un sequel, quindi ricordatevelo”.

C’è stato invece un sequel (la seconda stagione ha debuttato su Netflix qualche settimana fa) proprio per After Life, in cui Ricky Gervais è Tony, giornalista di un quotidiano locale di una piccola cittadina inglese. Devastato dalla perdita della moglie, Tony inizia a dare il peggio di sé. Tratta male i colleghi, gira con una scatola di sonniferi sempre in tasca con il proposito di farla finita prima possibile. Eppure, tira avanti. Tutta colpa del cane, che continua a chiedergli da mangiare quando lui ha deciso che è arrivato il momento di dire basta. Ma Tony non può disobbedire all’amata Lisa, morta di cancro pochi mesi prima, che in un videomessaggio che lui guarda a ripetizione ogni giorno lo riempie di osservazioni e raccomandazioni. Tra queste ci sono quella di accudire il cane, quella di tenere in ordine la casa, quella di provare ad essere gentile con gli altri. Non si può dire che a Tony riescano tutte queste cose. Gli riesce, però, di restare vivo e, un giorno dopo l’altro, novità, solitudini e personaggi improbabili (dalla prostituta sensibile, al postino senza tetto, fino alla compagna di panchina al cimitero) si insinuano nella sua vita. Senza nessun colpo di scena, ma solo (si fa per dire) con la vita che prosegue mostrando la propria forza indomabile. Nessun minimalismo né valorizzazione posticcia delle piccole grandi cose che contano. Piuttosto un inventario generoso e sincero di quello che accade. E che salva, sempre, la possibilità di un sorriso insieme a quella di un pianto.

 

In forma per uscire

Da Ticino7 del 16 maggio 2020 

Anche se non avete mai indossato la tuta e sempre buttato la spazzatura con in testa il cerchietto delle grandi occasioni, quando le regole si allentano e i pantaloni stringono, l’aria tersa vi fa tremare le gambe. Dopo settimane in cui restare in casa è un obbligo, scegliere di non farlo diventa tutt’altro che semplice. I forzati dello smart working continuano a soffrire, ma in fondo al cuore coltivano il terrore per il giorno in cui verranno convocati alla scrivania, magari privati delle pause caffè e dei colleghi abbastanza vicini da darsi di gomito al momento giusto.

Gli esperti, almeno quelli citati nei titoli degli articoli che leggiamo distrattamente per non stirare vagonate di panni, dicono che si chiama “sindrome della tana”. È certamente quella e non la pigrizia atavica aggravata dai chili presi a impedirci di andare a correre come vorremmo. Uscire fa paura perché non si sa dove andare né come comportarsi, certo. Uscire fa paura per tante ragioni più o meno razionali. Uscire fa paura perché, come nella fenomenologia delle storie d’amore che finiscono, si potrebbe incontrare qualcuno. La differenza, se la storia che ci portiamo dietro è una pandemia, è che non c’è una sola persona in grado di farci fermare il cuore e arrestare la salivazione. Qualunque persona, per il fatto stesso di esistere e di trovarsi sul nostro stesso marciapiede, ci fa paura. I bambini devono imparare a tenere le distanze, protestano perché “come si fa a giocare senza toccarsi”, contestano questa moda di salutarsi con un buffetto sul gomito, ti rinfacciano che fino a ieri raccomandavi di starnutire proprio nell’incavo del gomito. Si ribellano a ogni forma di interazione sociale o di tentativo di apprendimento mediato dalla tecnologia. Con la fierezza e la protervia di un Barone Rampante (ci è rimasto nel cuore) dicono: meglio soli che su FaceTime, meglio in casa che per strada a girare in tondo senza potersi fermare nei giochi del parco.

Noi adulti dovremmo mediare e trovare una soluzione, aiutare le paure ad emergere fino a dissolversi. Ma temiamo troppo di incontrare chi, mesi fa, ci aveva fatto i complimenti per i chili persi. Restiamo in casa, ancora un po’.

 

Sesso e lockdown

Da Ticino7 del 9 maggio 2020

Quattro, cinque, dieci. La bontà del dato dipende dal rapporto (complicato) tra numero di giorni di isolamento, variabile figli, metri quadrati di casa, presenza di giardino/terrazzo, condomini simpatici, parenti a portata di mano. Per gente che ha poca dimestichezza con la statistica, analizzare il tema sesso e lockdown è incredibilmente complicato.

Tendenzialmente ogni amica a cui si telefona riferisce di ritrovate vivacità di vite sessuali altrui (che volete, c’è gente che ama raccontare e vantarsi) e intanto scuote la testa: “Ma come fanno, mi dico, che io mi alzo e vado a letto pregando che la rete wi-fi regga a tutto questo stress?”.

Il minuscolo campione intervistato (certamente non staremo qui a cavillare sulla sua rappresentatività) alza gli occhi al cielo come quando riceve un messaggio sulla chat di classe che invoca la class action contro la scuola che da pochi compiti, la didattica a distanza che non funziona, le video lezioni, i webinar e il digital divide che impedisce ai nostri figli di imparare e soprattutto di levarsi di torno per almeno due ore consecutive.

Quelli che riscoprono le gioie delle lenzuola lo dicono a bassa voce, in imbarazzo come chi ha ancora babysitter e giardini di svariati metri quadrati. Le amiche che indagano si trasformano in vipere più velocemente del solito: «Bisogna capire a cosa erano abituati prima!». In pochi secondi siamo al grande classico, come un qualunque governante che cerchi di smorzare o aumentare il panico (a seconda dell’obiettivo politico del momento): i numeri vanno interpretati, contestualizzati e bisogna analizzare tutto con molta calma.

Le persone che ho cercato di intervistare sono più interessate a trovare una mascherina che non li faccia sembrare adulti giocato dell’Allegro Chirurgo. Mi hanno chiesto se sono diventata una fan del genere fantasy, se ho voglia di scherzare, se non mi rendo conto che qua l’obiettivo primario è resistere ed evidentemente il sesso viene considerata un’attività ludica e non certo essenziale. La mia amica che ha in casa il lievito madre, sostiene con decisione che ci sarà un sensibile aumento delle nascite tra qualche mese. Ma saranno tutti primi fi

Il benaltrismo che ci aspetta

Da Ticino7 del 2 maggio 2020

Quest’anno che, come dice qualcuno, rischiamo che la prova costume si tenga per iscritto, maggio fa una paura diversa dal solito. Ricominciare a uscire è strano quanto stare in casa. Ora che abbiamo frigoriferi pieni in cui non entra più uno spillo e l’abitudine a un ritmo disumano ma consolidato. Dopo giorni in cui tutto era confuso (i carboidrati, le proteine, le email, gli orari, la scuola, il lavoro, la notte, il giorno) l’idea di uscire ci fa tremare le gambe. Come ci guarderanno gli altri? Indosseremo davvero quella mascherina in tessuto damascato? E i compagni di scuola si potranno invitare? Compreremo ancora vestiti con lo stesso gusto e con la stessa serialità di prima?

Un cazzeggio così spinto non può che portare a girovagare su Facebook, in cerca di distrazioni più che di risposte. Un noto marchio di moda mi aspetta al varco come i vitelloni in discoteca a Riccione quando avevo 16 anni e mi propone di esaltare la mia femminilità con dei sandali-ciabatta imbottiti e fluorescenti. Ma quelle sono ciavatte, avrebbe detto quella buon’anima di mia nonna, che persino per la montagna aveva scarponcini da passeggio con il plateau. Le altre donzelle in target, signora mia, si scatenano nei commenti. Scandaloso vendere ciabatte a quel prezzo, chiamarli sandali, abbinarli ad altri accessori che hanno un costo ancora più sproporzionato. “Ma con i tempi che corrono, non vi vergognate?”.

Con i tempi che corrono. Eccolo individuato, il trend dei prossimi mesi. Si comincia già adesso, quando si azzanna un gelato dopo cena con fare furtivo. “Con tutto quello che dobbiamo sopportare! Io, che ho iniziato a cucinare alle sei di stamattina e smesso di stirare dieci minuti fa, non mi merito forse questa coccola?”. Usciremo e sì, torneremo a litigare. Poi ci guarderemo in faccia allargando le braccia: ma con tutto quello che abbiamo passato insieme (leggi: condiviso la prigione) possiamo ancora scannarci per queste piccolezze? Davvero è così importante che lui non rimetta mai il sacchetto nuovo nel bidone dopo aver portato via la spazzatura? Travolti dal benaltrismo ripenseremo a quelle ciabatte di alta moda: dopo settimane di tutta non te lo vuoi concedere un regalino?

 

Il quaderno della noia

Da Ticino7 del 25 aprile 2020

“Se andiamo in cortile porto con me il quaderno della noia. Certamente avrò qualcosa da scriverci”. Consapevoli che la positività è tutto, specie nell’infanzia, convinciamo le creature all’ora d’aria. Ci tiriamo dei frisbee, giochiamo a palla, malediciamo per l’ennesima volta l’aver perso le chiavi della bicicletta, guardiamo il triangolo di cielo azzurro. All’adulta che invece di lavorare si impegna a farla ridere riserva un’occhiata compassionevole: “Si vede che lo fai solo per farci divertire”. Ero pronta alla regressione, forte delle mie letture impegnate fatte di newsletter Parenting del New York Times. E invece mi ritrovo di fronte a sprazzi di preadolescenza che hanno pensato bene di approfittare della pandemia globale.

Il pongo, che nelle prime settimane sembrava magico, diventa proibito. Noioso il pongo, noioso il libro, noiosa la doccia, noioso darsi lo smalto, noioso tagliarsi i capelli. L’inizio dello scontro è arrivato con Il barone rampante. L’audiolibro ci ha innamorati, facevamo quasi tenerezza la sera tutti incantati ad ascoltarlo. Ridere a sentire di Cosimo Piovasco di Rondò che stabilisce il suo bagno nel fiume Merdonzo, intenerirsi e piangere per l’amicizia libresca e avventurosa con il bandito Gian de Brughi, sognare di fronte all’amore del Barone per Violetta. “Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così”.

Un pezzetto ogni sera, sembrava di salire sugli alberi anche a noi. Fino al capitolo finale. Che gli adulti non si ricordino il finale viene considerato imperdonabile. “Cosa leggete a fare se non ricordate il finale? E soprattutto se non ricordate se si sposano o no?”.

Il vero finale, così poetico e fedele alla natura del Barone, non soddisfa l’uditorio bambino. Ci arrampichiamo sugli specchi dicendo che il viaggio conta più della meta, tiriamo in ballo i gusti, il bello di discutere di cose di cui non siamo d’accordo. Fino a ieri eravamo l’adulto salvifico e depositario di certezze. Oggi siamo ebeti di mezza età che cercano di far ridere e non ricordano il finale dei libri. Non tutto si è fermato. Noi siamo andati avanti. E ci godiamo il viaggio (senza trascurare il finale).

 

Litigare per resistere

Da Ticino7 del 18 aprile 2020

All’inizio è tutto un notare che l’isolamento migliore è quello degli altri: quelli con un terrazzo, quelli residenti in zone baciate dai più svariati servizi delivery, quelli dotati di forma fisica accettabile, quelli single, quelli fidanzati, quelli con figli grandi, quelli senza figli. Per non parlare di quelli col giardino e con il lievito già in casa.

In un secondo momento è importante classificare le insopportabilità assortite. In primis, gli entusiasti del tempo ritrovato, i cantori della severa giustizia della natura che rimette l’uomo al suo posto, ponendo fine ai suoi sogni di onnipotenza. Seguono a ruota gli ottimisti, radunati dietro hashtag variamente banali e retorici. Quelli convinti che tutto ciò ci migliorerà.

In generale in queste giornate liquide, annoiate e frenetiche è importante mantenere delle parvenze di normalità. Pensavo che vestirsi, truccarsi e fare gli squat seguendo i consigli di Giulia De Lellis fosse sufficiente. E invece l’allenamento total body, corpo e mente, lo avevamo a portata di mano senza saperlo. Il motivo scatenante importa poco. Adesso che si esce appena e i calzini non restano in giro, vanno benissimo sia l’irritabilità costante che la sua mania di disinfettare la maniglia della porta ogni volta che scendete a buttare la spazzatura (converrete che il fatto che tutte queste cose siano comprensibili non le rende piacevoli). Insieme a lavarci le mani, litigare è forse l’unica cosa che possiamo e dobbiamo fare con maggiore intensità di questi tempi, per mantenere un contatto bestiale con la realtà. Sbattere la porta, uscire senza alcun tipo di mascherina a gridare fortissimo “meglio farsi arrestare che restare qui dentrooooo”. Quell’altro non esce, ha ancora in mano l’alcool per disinfettare la maniglia, non mette piede fuori casa. Inizia a telefonare, implora di tornare, tutto si sistemerà, bisogna avere pazienza e il periodo è difficile per tutti. Resistere il più possibile fuori dal portone, non rispondere ad almeno tre chiamate per far credere che avete fatto il giro dell’isolato mentre non vi siete mosse dal portone. Resistere, resistere, resistere. Senza sbavare il mascara.