sabato 11 aprile 2020

Pane per i nostri denti

Da Ticino7 dell'11 aprile 2020

Nei giorni dell’ossessione per il lievito mi è stato ricordato che abbiamo posseduto, svariati anni fa, una macchina del pane. Pare che a gridare gli insulti più svariati all’indirizzo degli autori del regalo fosse proprio la sottoscritta. “Perché dovrei fare in casa qualcosa che posso uscire a comprare?”. La macchina del pane ha stazionato per diversi mesi nel ripiano alto della cucina, ancora imballata. Poi si è trasferita in cantina. Poi ha preso il volo per altri lidi, verso qualcuno che spero fosse dotato di lievito in questi tempi strani. Anni dopo ci ritroviamo a sorvegliare con prudenza un impasto che lievita.

Mia figlia ha severamente proibito l’utilizzo delle espressioni “in questo periodo” e “di questi tempi”. Ritiene, a ragione, che la sua partecipazione al dramma collettivo si debba limitare al lavaggio frequente delle mani cantando due volte di seguito la sigla della Pimpa. Ciascuno di noi sceglie qualcosa da fare per onorare l’emergenza. Molti adulti scelgono la cucina nella sua variante più complessa e primitiva: il pane.

Sgombriamo il campo da un equivoco: non lo si fa per occupare il tempo. È importante chiarirlo a tutti coloro che mettono a disposizione tutorial, corsi di aggiornamento, audiolibri. Tutto gratuito nell’ambito dell’imperdibile offerta-speciale-periodo-di-reclusione. Ci iscriviamo a tutto il possibile e teniamo in considerazione tutto, ma non concludiamo niente. È il nostro modo di difendere la normalità e una possibilità di fine dall’incubo: procrastinare è sempre importante, possiamo imparare a fare il pane (anche se farlo una volta non significa imparare) ma non vogliamo certo rinunciare al diritto ad una quarantena improduttiva.

Al termine di tutto questo avremo ancora libri non letti e programmi non rispettati. Direi che ne avremo molti di più perché stare in casa significa non avere mai tempo per fare niente. Alcune di noi lavorano per avere venti minuti di libertà verso l’ufficio in cui telefonare senza nessuno che si arrampica sulle gambe, lo sapevate? Ricominceremo. Diremo che abbiamo imparato la pazienza aspettando la lievitazione del pane. E soprattutto aspettando di trovare una bustina di lievito acquistabile.

 

venerdì 3 aprile 2020

Metà alfa, metà metrosexual

Da Ticino7
Come l’amicizia tra uomini e donne, le relazioni a distanza, il vestito elegante-sportivo e il mostro di Loch Ness quello del maschio Alfa è un mito sul quale siamo periodicamente condotte a ragionare causa avvistamenti. Come tutti i miti, anche quello del maschio Alfa esiste e affonda le radici in esigenze e osservazioni reali. Il mito esiste quando ci lagniamo del fatto che nessuno più ci paghi il conto al ristorante, ci ceda il passo in ascensore, apra i barattoli con la sola forza delle mani e le birre con l’accendino. La realtà è che noi donne non vogliamo affatto il Maschio Alfa, ma vogliamo un pizzico di alfa nel maschio che ci siamo scelte. Ed esercitiamo con metodo il diritto (sacrosanto) di risentirci se quel pizzico di “alfitudine” non viene espresso nei modi e nei tempi che desideriamo.
Prendiamo il caso, ovviamente ipotetico, di una coppia in isolamento e convivenza coatta. Ciascuno ha il suo computer, una connessione internet potente, nessuna necessità di chiacchierare. Niente di diverso dal solito, insomma, se non fosse che gli spazi sono affollati ad ogni ora del giorno e là dove un tempo erano tutte borse e cabine armadio, sta parcheggiato il Camper dei Sogni di Barbie. Si dirà: non c’era bisogno di catastrofi pandemiche globali per rendersi conto d’aver perso per strada ampi pezzi di libertà.
Il maschio di casa ha resistito fino all’ultimo andando in ufficio, usciva solo e armato come chi si inoltrasse nella giungla per portare a casa qualcosa da mangiare. Finito l’eroismo la giungla è arrivata dentro casa. Ogni mattina, armato di pazienza fino ai denti, esce dalla cucina a vista per chiudersi in camera da letto. Cinque passi richiedono un abbigliamento adeguato. La parte femminile della famiglia è vestita e truccata alle nove del mattino, il pigiama è severamente vietato dopo quell’ora, perché ci è stato insegnato che bisogna essere sempre in ordine e rendere giustizia a un guardaroba che non basterà una vita ad ammortizzare. Lui non fa una piega. Si avvia alla camera da letto indossando camicia bianca perfettamente stirata, golfino blu e pantaloni della tuta. Metà maschio alfa, metà metrosexual. A stretto uso di video call.

In sella al cambiamento

Da Ticino7 del 25 marzo 2020
Dice: sarebbe bello che anche tu parlassi di moto.
Dico: la cosa più vicina a una moto che conosca è la bicicletta, ma è come paragonare una scarpa e una ciabatta.
Dice: Non sarà mica la prima volta che parli di cose che non conosci e ti esibisci in paragoni arditi?
La redazione ha i modi giusti per riportare all’ordine i collaboratori scansafatiche, pertanto eccoci qui. A mettere in primo piano, come sempre, l’interesse del lettore. Perché questo è il fatto: anche il lettore e la lettrice che in questo momento non abbiano altra urgenza che quella di idratare i propri talloni, prima o poi si imbattono nel tema moto e dintorni. Qui non parliamo infatti di chi nasce centauro, di chi da sempre affronta le vacanze con un bagaglio grande quanto un forno a microonde. Qui parliamo di neofiti, mogli e compagne che alle moto arrivano per vie traverse, spesso condotte dallo sfizio che lui, sull’orlo dei quaranta, ha deciso di togliersi. Aveva la moto da giovane e oggi, arrivato a un giro di boa tanto significativo, vuole condividere la passione. Avere un uomo che si entusiasma non è cosa da tutti i giorni, così lei cede.
Lui passa giorni a scegliere il modello confrontandosi con gli amici. Ha negli occhi il sollievo di chi ha già allocato il budget e deve soltanto decidere i dettagli. Fa tenerezza: è lo stesso senso di trepidazione che proviamo noi scegliendo la borsa dell’anno. Certo, il suo sfizio costa come le borse degli ultimi cinque anni messe insieme, ma non si può essere pusillanimi con i desideri.
Un giorno esce soddisfatto come un medico dalla sala parto e pronuncia un marchio noto seguito da una sequenza di numeri e lettere. Lo schema prevede che si annuisca convinte. Il grosso sembra fatto e invece il bello inizia adesso. Come un Fred Flintstone qualunque sente il dovere di occuparsi della tribù. I bambini non sono contemplati (se c’è una cosa bella delle moto è che hanno due posti), ma lei non può tirarsi indietro. Lui sfodera il sorriso accondiscendente con cui si propone la caramella per la gola alla creatura: dobbiamo comprare dei vestiti adatti. La parola vestiti dovrebbe essere quella rassicurante.
L’abbigliamento da moto, in effetti, può regalare certamente più occasioni di utilizzo di quello da sci (verrà il giorno in cui vi racconterò della 39enne condotta in un negozio sportivo ad acquistare gli scarponi la vigilia di Natale). L’altra parola magica è riutilizzabili. Solo il tempo chiarirà che per ammortizzare davvero la spesa e soprattutto utilizzare realmente l’outfit bisognerebbe indossare la giacca con le imbottiture tutti i sabati andando a fare la spesa.
A un anno esatto dall’acquisto si tirano le somme. I viaggi in moto in due si contano sulle dita di una mano. Di quelli contati lei ricorda: il caldo devastante al semaforo che sale dai piedi e arriva in un secondo al cervello; la giacca di pelle troppo stretta; l’impossibilità di parlare perché i microfoni del casco, per un motivo o per l’altro, non funzionano mai; l’impossibilità di prendere in mano il telefono per paura di volare via alla prima accelerata.
Quella era la primavera scorsa, questa sarà tutto diverso. Sceglieranno le giornate meno calde, sistemeranno i bambini, ripareranno i microfoni per avere tempo di parlare del suo sfizio dei quarant’anni. Per lui la moto, per lei la borsa di Hermés. In fondo è già primavera e tutto questo allarme finirà. E si potrà uscire di casa, per passeggiare, per morire di caldo ai semafori, per provare l’ebbrezza di litigare a gesti (no, i microfoni non funzioneranno ancora) dopo settimane di allenamento a casa. E per rispondere a una fondamentale domanda: si litiga meglio su due ruote o tra quattro mura?

Performing love

Da Ticino7 del 18 marzo 2020
Un gentiluomo, tenero, con un look improbabile e affascinante. Ricordando il primo incontro con Ulay, che diverrà suo compagno di arte e di vita per dodici anni, Marina Abramovic raccontava la fascinazione della ragazza ben educata (“io studiavo inglese, studiavo pianoforte, lui lavorava già”) di fronte a un ragazzo rimasto orfano durante la seconda guerra mondiale e già noto nel mondo della performing nel 1976, anno del loro primo incontro ad Amsterdam. Intuiscono di avere bisogno l’uno del corpo dell’altra. Il loro amore diventa un terreno di sperimentazione.
Nei video e nelle foto di repertorio emersi qualche giorno fa, quando Ulay è morto di cancro, ci sono un ragazzo alto, magro, dinoccolato e bellissimo e una ragazza giovanissima, esile e determinata. Per diversi anni Marina e Ulay vivono in un furgone. L’opera si chiama Permanent movement. La performance più famosa è certamente “Imponderabilia” in cui Marina e Ulay sono nudi appoggiati in piedi agli stipiti della stessa porta, si guardano negli occhi mentre il pubblico deve scegliere se dare le spalle all’uno o all’altra per passare. Non ci vuole molto perhé la polizia intervenga a chiudere la mostra. Le sperimentazioni continuano, con performance in cui si schiaffeggiano o si corrono incontro per sbattere l’uno contro l’altra con violenza crescente. Sempre in una vecchia intervista, Ulay racconta che Marina ha una resistenza incredibile quando si tratta di infliggersi qualcosa.
Quando decidono una delle loro performance più clamorose non sanno che sarà l’ultima insieme. Si intitola “The Lovers”. Scelgono di percorrere la muraglia cinese a piedi, partendo da due parti opposte per incontrarsi a metà. Sono tre mesi faticosissimi, a Marina tocca il percorso più impervio. Quando incontra Ulay – racconta nella biografia – scopre che lui era lì fermo da tre giorni, la aspettava nel punto più scenografico in cui farsi fotografare. Nel frattempo, aveva avuto una relazione con l’interprete, che aspettava già un bambino. Sulla muraglia cinese l’amore finisce. La storia dei tradimenti – da entrambe le parti – è ricca e confusa.
“La cosa più triste – scrive Marina nella sua autobiografia – era che fallissimo per il più stupido e banale dei motivi, la vita domestica”. Bisogna avere molta resistenza per infliggersi l’amore.

Bello lo smart working ma non ci vivrei

Da Ticino7 del 6 marzo 2020
Anni fa guardavamo con ammirazione l’amica assunta in una grande azienda. Cinquecento impiegati, duecento scrivanie, nessun posto assegnato. Una mattina potevi arrivare e trovarti al fianco l’amministratore delegato, accomodato con il suo pc portatile in un punto qualunque dell’open space, all’esterno del quale si trovavano acqua e frutta fresca a disposizione di tutti. Ma poi perché andarci, in ufficio? La tecnologia ci consente di fare qualunque cosa a distanza e le magnifiche sorti e progressive erano finalmente a portata di mano (almeno per lei).
Del resto, siamo talmente moderne da aver sempre creduto nelle relazioni a distanza. a convivenza, Dio sa se oggi ne abbiamo le prove, peggiora tutto e tutti e l’ecosistema di un ufficio non è così distante da quello di una coppia e di una famiglia. Ci si odia ad intervalli regolari. Si gode infinitamente nei momenti di solitudine. Quando i biscotti durano per settimane, la stampante non è intasata, il cesto della biancheria rimane vuoto per più di cinque minuti, alla macchinetta del caffè non c’è coda né aspettativa sociale di chiacchiera.
Galvanizzate dai racconti dell’amica e dalle profonde analogie tra rapporti di coppia e rapporti di lavoro affrontiamo lo smart working con la positività delle persone di larghe vedute. Vestite di tutto punto sediamo al tavolo del soggiorno a riaprire quel file che in ufficio non riusciamo a completare. In due ore il lavoro finisce e non c’è neanche una collega con cui chiacchierare; la situazione peggiora quando la prole resta a casa per qualche motivo. Dopo pochi giorni, l’esperimento sociale si trasforma in incubo: si sgomita pur di uscire, si inventano riunioni fondamentali, si accusa l’ottusità dei capi: “Sai, lui odia fare le call devo andare io in ufficio”.
Vorrei dirvi che il sogno è durato poco. La favola delle scrivanie in difetto è finita pochi anni dopo, quando un terzo dei dipendenti dell’azienda luminosa e progressiva è stato licenziato. La loro presenza, nella sede ricca di acqua e frutta e povera di scrivanie, era così aleatoria da essere diventata accessoria. I rapporti a distanza devono sempre sfociare in qualche forma di convivenza: occorrerà pure dare sostanza ai litigi, no? L’amore non è sempre cosa per gente di larghe vedute.


Ultim'ora Tik Tok

Da Ticino7 del 28 febbraio 2020
Immaginate di essere di fronte alla televisione, sintonizzati su uno di quei canali all news dotati di fascetta sottopancia con le notizie dell’ultim’ora. Saprete che esiste una legge (certamente scientifica) per la quale una persona qualunque che si trovi di fronte a questo fenomeno sarà condotta a leggere sempre e solamente le stesse due notizie. Leggerete dieci volte che un cervo ha attraversato il centro abitato ma non riuscirete mai a sapere come finisce la notizia successiva. Proverete a concentrarvi ma qualcosa arriverà a distrarvi, sempre subito dopo la notizia del cervo. Ecco. Questa è l’esperienza più simile che conosco a quella di un adulto che si trovi di fronte Tik Tok.
È il social degli adolescenti, come vi spiegano bene le autorevoli firme che scrivono in queste pagine. Qui, nell’enclave di non autorevolezza e tripudio di idiosincrasie caratteriali che è questa colonna, vi diremo che è il social che ci meritiamo, punizione per tutto quello che abbiamo fatto come l’Alberto Sordi di Ecce Bombo. Il “rullo” delle notizie dell’ultim’ora è solo in parte simile a Tik Tok: una volta entrati non avrete nessun appiglio, tanto meno quello di notizie o elementi ripetitivi che vi consentano di orientarvi. Sul vostro telefono apparirà senza soluzione di continuità una cascata di contenuti idioti e divertenti (balletti, gente che parla con voci strane). L’algoritmo di Facebook ci propone indignazione e pettegolezzi, quello di Instagram cose da comprare per sentirci finalmente perfette. Quello di Tik Tok pare avere il solo scopo di stordire fino ad asfaltare.
Certamente alla Ficcanaso sfuggono le potenzialità infinite dello strumento. Da qui la vediamo in modo molto basico: Tik Tok è un ritorno sfacciato all’essenza stessa di ogni social, ossia il cazzeggio. Per anni ci siamo arrabattati su professioni come il social media manager e sulle attività “editoriali” legate ai social. Il futuro, Tik Tok, è un ritorno alla preistoria. Con l’aggravante che bisogna allenarsi tantissimo. Quasi tutti i video degli influencer “tradizionali” (Chiara Ferragni in testa) che sbarcano sull’ex Musically iniziano con constatazioni di quanto sia difficile usarlo. Servono infatti un allenamento pazzesco e una dedizione metodica. Occorre allenarsi tantissimo per non dire assolutamente nulla. E farlo in modo assolutamente divertente. Del resto, ci voleva metodo anche per la gara di rutti alla cena di classe delle medie.

Educazione siberiana e lavaggio di mani

Da Ticino 7 del 14 febbraio 2020
«È inutile che tu faccia finta di nulla: so del Coronavirus. Ne hanno parlato a scuola e per capire ho letto sul giornale». A quanto pare del Corona Virus hanno parlato i bambini durante l’intervallo e il giornale trovato in bagno è stato ritenuto attendibile quasi quanto i genitori non allarmisti. «Ce ne hanno parlato anche le maestre, quando ci dicevano che dovevamo lavarci le mani». Interessante, mi sono detta galvanizzata al pensiero di quante possibilità di minaccia e coercizione aprisse la parola epidemia. Ma perché la minaccia e il ricatto (insuperabili metodologie educative) siano efficaci occorre una base di paura e di ignoranza. E nel nostro caso il tema Corona Virus non suscitava né l’una né poteva contare sull’altra. A quanto pare, infatti, l’unica cosa rilevante durante l’intervallo sono i rapporti sociali.
«Le bambine di terza e le bambine di quinta dicono che noi abbiamo i pidocchi e quindi non possono stare con noi». L’isolamento sociale non le turba, prevale una sorta di sollievo per essere lasciate in pace da bambine tiranne, ma la madre che ha già combattuto la buona battaglia non ci sta. «Alle bambine che dicono così dite che i pidocchi si possono debellare, cosa che noi abbiamo fatto. Purtroppo invece la stupidità non può essere debellata. Poi mi fate un elenco di nomi e cognomi e vado a prendere i genitori uno ad uno».
Credo sia stato quello il momento in cui ho capito che il “fregatene e lasciali parlare” non poteva essere più accettato. Abbiamo sempre cercato di evitare i conflitti, siamo pacifisti e troppo pigri intellettualmente e fisicamente per qualunque tipo di guerra. Fino a che le creature non sono finite nella giungla. E noi genitori della casa sull’albero abbiamo scoperto il gusto del coltello tra i denti. Così ci siamo impegnate nel training, frasi semplici e ben chiare pronunciate con la sicurezza che sola può tenere a bada i seccatori. Poi un giorno la grande torna a casa interdetta. «Io e tizia abbiamo litigato. Le ho detto che è lei a dovere cambiare carattere, non io». Forse ho esagerato, pensi mentre cerchi capire come introdurre il tema della morbidezza e dell’importanza sociale del compromesso. «Mi ha detto che sua mamma ha ragione a dire che io sono strana». Sangue gelato. «Sarò strana, ma a me piace come sono». L’autostima, tesoro mio, è il miglior regalo che puoi fare a te stessa per San Valentino.