giovedì 25 marzo 2021

Il festival dei ricordi

 Da Ticino 7 del 6 marzo 2021

Mi sembra ieri e mi sembra passato un secolo. Mi sembra ieri che i bambini smettevano di andare a scuola per chiudersi in casa, mi sembra passato un secolo da quando bagnarsi le dita con la saliva per aprire un sacchetto al supermercato non era considerato un atto di terrorismo.

Sull’11 settembre non abbiamo dubbi: una ferita enorme in un giorno e in un’ora precisi, fermarsi è doveroso e soprattutto possibile. Nel disastro in cui siamo sprofondati da un anno a questa parte, invece, tutto è sfilacciato, rimandato alle esperienze e alla coscienza personale. Da giorni ci tocca sorbirci i ricordi di tutti. Li leggiamo annoiati eppure curiosi: in ogni pezzo di storia degli altri c’è un pezzetto anche nostro.

L’anno scorso, di questi tempi, sorprendevo le bambine a parlare tra loro. Erano già a scuola da un pezzo, noi chiusi in casa, il cortile come unico spazio di libertà. “Anna, ci pensi se il virus fosse arrivato prima?”. “Sì, per fortuna è arrivato dopo Sanremo!”. Ho sorriso del loro senso delle priorità, ho postato una frase simpatica che ha fatto ridere molti dei miei amici.

Oggi, nel pieno di un Sanremo che aspettavamo con ansia, abbiamo comperato TV Sorrisi e canzoni, nel tradizionale numero speciale dedicato al festival. In copertina la solita foto con tutti i cantanti insieme e il conduttore al centro. Due pagine della rivista sono dedicate a spiegare che lo scatto è stato realizzato a prova di Covid. Il segreto si chiama fotomontaggio e le bambine si sono appassionate alla tecnica. Il solito scrigno di segreti e curiosità che è TV Sorrisi e canzoni in questo momento dell’anno è costellato di riferimenti al protocollo Covid. I cantanti non possono girare per Sanremo, devono restare in hotel prima e dopo le esibizioni, sul palco possono restare vicini solo i gruppi (Maneskin e Stato Sociale i più famosi di questa edizione), gli altri a rigorosa distanza di sicurezza. Orietta Berti arriva a Sanremo senza suo marito Osvaldo, ha il terrore, non potendo cambiarsi in teatro, che il vestito di GCDS (uno dei brand più giovani del momento) arrivi spiegazzato, evita i carboidrati da settimana per contenere la pancia.

È passato un anno dall’ultimo Sanremo spensierato e inconsapevole e questa edizione, a lungo in forse, ci trova di nuovo sul divano. Ancora più stabilmente



Holly e Benji, il telecomando e la nostalgia

Da Ticino 7 del 27 febbraio 2021

Arriva momento della vita in cui un genitore ritiene doveroso spiegare alla prole cosa faceva da piccolo e con quanto gusto e autenticità viveva la sua infanzia. Nel racconto tutto viene mitizzato, dai metodi severi e antiquati della maestra delle elementari ai pomeriggi fiume davanti alla televisione senza controllo (sì, erano gli anni Ottanta, la pedagogia Montessori non si portava su tutto come un filo di perle per ingentilire e i nostri genitori indossavano tailleur con le spalline, lavoravano senza sosta, uscivano tutti i sabati e non avevano certo tempo per dedicarsi a un programma di limitazione della tv per le creature, dal canto loro così efficacemente incantate dall’apparecchio).

Forse la maturità è proprio questo: friggere dolcetti per Carnevale, buttando alle ortiche il mantra “casa nostra è troppo piccola per friggere” e tornare alla carica per far appassionare i bambini ai cartoni della nostra infanzia. Dico tornare perché chiunque di noi ha fatto tentativi prima del tempo. Come dimenticare l’emozione di metterli davanti a Siamo fatti così restaurato e rilanciato di fresco su Netflix, per scoprire dopo pochi minuti che a loro del corpo umano non interessava nulla. Perché non riprovarci con Holly e Benji. Ce lo ha fatto tornare in mente l’ultima cretinata di cronaca, secondo cui in Cile il cartone è stato vietato perché giudicato sessista (faccio un name dropping solo per voi, amici di annata: lo schiaffo lo molla Julian Ross, il calciatore cardiopatico, alla manager che rivela in conferenza stampa i suoi problemi di salute).

Siamo cresciute bombardate da cartoni di questo tipo: portiere e attaccante nemici-amici, pallavoliste stakanov che si allenavano con le catene ai polsi. Per non parlare della ginnasta che saltava sulla trave come un capretto sognando le Olimpiadi e raggiungendole con una abnegazione che in futuro noi non avremmo applicato neppure all’impossibile processo di apertura dei Chupa Chups. La sofferenza, elemento centrale dei manga giapponesi a cui erano ispirati i nostri cartoni cult, ha pervaso la nostra vita fin da subito. Oggi cerchiamo di proporla come un valore ai nostri figli. Ma cosa può capire e apprezzare chi non sa cosa significhi alzare le chiappe dal divano per cambiare canale?  

 Da Ticino7 del 20 febbraio 2021

Era un giorno d’estate e tardavo ad arrivare a casa per una pausa nel negozio riscoperto da poco che era in grado di produrre pantaloni adatti a chi non ha propriamente un fisico da modella. Non so se la maturità sia accettare che non è il più tempo di strizzarsi in pantaloni a vita a bassa o annuire stupite davanti allo specchio convenendo che sì, quella vita alta per cui prendevamo in giro le nostre madri ha oggi il non trascurabile vantaggio di contenere una pancetta rilassata. Forse maturità è non agghindarsi per andare in un negozio del centro di quelli con commesse arpie e irraggiungibili, non cercare di sembrare una di loro. Sta di fatto che in questo rispettabile ma modesto negozio sono andata normalmente vestita dopo un giorno di lavoro, ai piedi un paio di scarpe da tennis incredibilmente costose. 

Sto uscendo dal camerino con gli ultimi pantaloni da provare e i miei gioiellini ai piedi quando la commessa nota la minuscola marca scritta sulla linguetta delle scarpe. Leggendo il nome del marchio di alta moda francese mi guarda con ammirazione: “Oh che belle, ma lei che lavoro fa?”. 

Il sotto testo era chiarissimo eppure inammissibile per gente non avvezza a fare i conti: “Che lavoro fa per potersi permettere un paio di scarpe che costa come più della metà di uno stipendio medio di una persona della sua età?”. Sono impazzita di tenerezza per quella ragazza così naïve da pensare che al giorno d’oggi la gente compri ciò che può permettersi e sia adeguato al suo stato sociale, così ingenua da dire ciò che una commessa arpia è addestrata a non dire mai.

Ho pensato a lei molte volte in questi mesi. Ci ho pensato ogni volta che ho meditato di investire i miei risparmi in una borsa, ogni volta che ho incontrato per strada ragazze giovanissime con al braccio la Saddle di Dior. Siamo oltre la lezione di Sex and the City di anni fa, con Carrie che girava la città con vestito da 20 dollari e scarpe da 400. 

In campo emotivo e sentimentale siamo continuamente a chiederci cosa possiamo e non possiamo permetterci, in fatto di diete ugualmente: posso permettermi un sushi se sto facendo una dieta low carb? Possiamo contare i sentimenti e le calorie, sappiamo fare di conto in molto campi, ma non chiedeteci di farlo quando si parla di accessori.


Le lettere di Clooney e le stanze di Clubhouse

 Da Ticino 7 del 13 febbraio 2021

“Non mi pare che tu mi abbia mai scritto una lettera”. Quando ho letto che durante il lockdown George Clooney scriveva lettere periodiche alla moglie Amal, sua compagna di confinamento insieme ai figli gemelli di quattro anni, ho ritenuto importante fare un confronto con casa mia. Nessun intento polemico, volevo solo capire se davvero fossimo così diversi da George e Amal (non ridete!) anche laddove una somiglianza era a portata di mano: le parole, i contenuti. Perché un foglio di carta si può trovare anche in casa nostra, no? Ebbene, George lasciava delle lettere, scritte a mano, sparse in giro per casa. È la sua ricetta d’amore insieme a quella di assicurarsi un weekend al mese senza bambini. Davvero interessante e facilmente replicabile, mi sono detta. “E cosa dovrei scriverti? Ti vedo tutti i giorni?”. 

Il problema – in fondo - è lo stesso di Clubhouse, il nuovo social network arrivato dalle nostre parti a inizio gennaio. Trattasi di un social su invito, al momento riservato ai soli utenti iPhone e basato sulle interazioni vocali tra partecipanti, suddivisi in stanze (private o pubbliche) di natura tematica. In pratica la fiera dei messaggi vocali, con l’aggravante dell’interazione in tempo reale e il brivido di discorrere con gente di cui non si potrebbe mai avere il numero di telefono (vip in primis). Per quanto mi riguarda, una raffigurazione dell’inferno. Intorno tutti mi dicono che ha enormi potenzialità, che è il futuro e che - questa la motivazione davvero diabolica – un’occhiata devo necessariamente darla, io che comunque mi occupo di comunicazione. Ho detto che no, non mi interessa, ho già fatto un giro di giostra nell’inferno di TikTok e fatto morire tutte le piante in casa. Non so pianificare la spesa della settimana: come posso occuparmi di un altro social network? Non ho tempo è la scusa principale, non ho spazio nella testa sufficiente per trovare uno spazio pure per i vocali di sconosciuti. Il dettaglio non trascurabile è che ridendo e scherzando non ho ancora trovato qualcuno che mi invitasse. Soprattutto, di cosa dovremmo parlare? Perché puoi pure trovare un pezzo di carta in casa e lasciarlo sul comodino di lui. Lo prenderà, stranito da un biglietto alla viglia di San Valentino, aprendolo sospirerà di sollievo: “Compra latte, pane e uova”. Ognuno ha i contenuti che si merita. 


La sbornia delle bambine ribelli

 L’ultima volta che una insospettabile ce lo ha regalato ero fermamente decisa a non buttarlo. Poi mi sono resa conto che i posti sicuri erano già stati occupati per altri beni proibiti e considerati nelle sole disponibilità degli adulti, come ovetti Kinder, pongo sporca tutto, zucchero a velo. In assenza di un posto sicuro in cui nasconderlo agli occhi di coloro a cui era destinato, mi sono liberata definitivamente della terza copia in due anni di Storie della buonanotte per bambine ribelli. 

Come ogni bastian contrario, mal sopporto da tempo l’entusiasmo corale di fronte a questo volume che raccoglie le vite di “100 donne straordinarie che hanno cambiato il mondo”: da Serena Williams a Malala Yousafzai, da Rita Levi Montalcini a Frida Kahlo, da Margherita Hack a Michelle Obama. L’idea è di indirizzare le letture e dunque i sogni delle bambine per liberarle dagli stereotipi sessisti. Ho ricevuto il volume, best seller considerato imprescindibile nella biblioteca di una bambina di oggi, dalle persone più diverse: cattolici, atei, progressisti, reazionari, biondi, bruni, acculturati e non, conoscenti e amici di lunga data. Ogni volta mi dicevano che non potevamo non averlo oppure si schernivano: “Molto probabilmente lo avete già”, riconoscendoci implicitamente portatori di quei valori che il libro dovrebbe promuovere. Ogni volta iniziavo a sfogliarlo e alla terza biografia corredata da una bellissima illustrazione finivo a domandarmi cosa abbiano fatto di male le nostre figlie per sorbirsi tutte le nostre smanie di verosimiglianza e i nostri tic di adulti benpensanti. Mai una casa editrice si sognerebbe di proporre a dei bambini l’album delle figurine dei parlamentari o dei premi Nobel. Eppure, mettendoci di mezzo il genere, tutto cambia. Meglio crescere con lo stereotipo del lupo cattivo e della principessa addormentata, che essere svezzati a pane e manuali di valori giusti e buoni sentimenti. Leggere serve a sognare, inventare, rompere, spaventarsi e odiare. E, con tutto il rispetto, certe incombenze se le sbriga meglio quel filibustiere del Corsaro Nero che Michelle Obama.