Da Ticino7 del 1 marzo 2019
Puntuale come la voglia di un trench di Burberry arriva
l’impulso primaverile di mettere mano a balconi e davanzali. “Scriverò di verde
e cura della casa”; ho annunciato l’altro giorno. Lui ha alzato il sopracciglio
prima di iniziare a tenersi la pancia dal ridere. Aveva tutta l’aria di quello
che ritiene il proprio interlocutore poco qualificato. Chissà poi perché.
Da mesi, rientrando a casa, alziamo gli occhi dal cortile e
ci salutano ciclamini finti e piante sull’orlo del suicidio. La fioraia
all’angolo ha già esposto le margherite. Sono belle grandi, fiorite,
prosperose. Esattamente come erano quelle dello scorso anno prima di
attraversare la carestia provocata dalla nostra disattenzione.
I primi tempi, innocenti, furono quelli delle spezie.
Salvia, rosmarino, basilico. Vuoi non averle sul davanzale? Ho sorriso, felice
e inebriata da quegli odori meravigliosi, sinceramente confortata dalla
possibilità di raccogliere salvia al momento di condire i ravioli o scegliere
le foglie di basilico più tenere per il sugo al pomodoro. Come dimenticare il
rametto di rosmarino per le patate arrosto. Del resto, col trench di Burberry risolverei
definitivamente il problema del capo spalla con un passepartout per ogni tipo
di occasione.
Nei miei piatti i rametti di rosmarino si trasformavano in bastoni
affilati in grado di recidere la carotide, quanto alla salvia e al basilico,
nessun piatto è mai arrivato a vederli freschi. Col trench di Burberry sembro
uno scaldabagno vestito di beige.
Mia suocera, che un tempo mi fabbricò dei portavasi su
misura, non è tipo che si arrenda facilmente. Così arrivavano sul davanzale
rosmarini sempre più vigorosi, innesti prodigiosi e venduti come immortali. Sono
morti tutti ma presto abbiamo individuato l’origine del problema.
“Le spezie sono impegnative, tu hai una vita movimentata,
servono piante sempreverdi”. Nel giro di tre mesi si trasformavano in
sempresecche fino a che non arrivava lei: la pro life della botanica favorevole
all’accanimento terapeutico. “Sono ancora vive”, proclamava prima di
prescrivere la cura. “Devono cambiare aria”. Così, come i ricchi dell’Ottocento
che andavano in sanatorio, le nostre piante hanno iniziato ad andare in villeggiatura
sul balcone di mia suocera che si trova a circa 300km da casa nostra. Dopo due
mesi di rehab tornavano irriconoscibili (ho il dubbio fondato che ne comprasse
di nuove) e pronte ad affrontare nuovi lunghi mesi di degrado.
Erica, peperoncini, primule, margherite, ciclamini, belle di
notte, edere. Sono solo alcune delle specie che si sono succedute nel corso
degli anni. C’è la passione dei fiori recisi, poi la soluzione pratica delle
piante finte, eppure ad ogni primavera siamo lì a scegliere quale pianta
immolare quest’anno. Il fatto è che prendersi cura di una pianta è prendersi
cura di un essere vivente. E la verità semplicissima è che non tutti siamo
tagliati per farlo. Ma quasi tutti viviamo la tentazione di gettare il cuore
oltre l’ostacolo. Del resto, l’amore è una storia di grandi slanci, davanzali
troppo piccoli, delusioni e nuovi inizi. Glielo dite vuoi all’uomo dal
sopracciglio alzato che anche per lui è previsto il rehab per un paio di mesi?
Del resto, i trench di Burberry, in provincia, costano un po’ meno.
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