venerdì 4 ottobre 2019

Di maschi, caccia e cinghiali


Da Ticino7 del 27 settembre 201
“Le pietanze sono cucinate da cuochi-cacciatori, esclusivamente uomini, e si sa, quando è un uomo ad amare la cucina i risultati sono eccezionali! ...e le donne? Le donne alla somministrazione dei piatti, rigorosamente selezionate tra mogli e figlie dei nostri cacciatori, insomma, tutto fatto in casa, e per di più annaffiato da vini locali!”.
L’incipit è preso direttamente dal sito della Sagra del Cinghiale di Capalbio, in Maremma, salito agli onori delle cronache qualche settimana fa. Chi ha detto che soltanto gli uomini debbano cacciare e cucinare le proprie prede? Perché le donne dovrebbero essere relegate soltanto al ruolo di cameriere? Soprattutto, incalza la vostra cronista inviata sul fronte della discriminazione, perché le donne sono definite “mogli” e “figlie”? Il cacciatore non è figlio né marito di nessuno?
Gli organizzatori della Sagra del Cinghiale, abituati a trattare bestie feroci, hanno spiegato che non c’era alcun intento discriminatorio. Ovviamente le scuse non hanno fermato l’indignazione, ma io credo che fossero sincere. Come sincero è l’istinto che porta certi maschi a sentirsi in dovere di cacciare per consentire la sopravvivenza del branco.
Il tema non è la caccia o la selvaggina in sé. Il tema è procurarsi qualcosa con la forza o l’ingegno per vivere. In soldoni: io credo che i maschi caccino per lo stesso motivo per cui certe donne fanno il pane in casa. Ossia dimostrare di essere in grado, di farcela da soli, di esser autosufficienti e indispensabili per qualcuno. E chiaramente che siano le donne a cacciare e i maschi a fare il pane o viceversa incide molto poco nel ragionamento che sto facendo, che nulla ha a che vedere con i ruoli.
Qualche giorno fa sono stata invitata in quanto +1 del maschio di casa ad una cena di una banca. Non potevo lasciarmi scappare l’occasione di vedere da vicino un’opera d’arte importantissima e colpevolmente mai vista. Alla visione dell’opera segue la cena, gli sconosciuti si presentano con quelle formule odiose eppure obbligatorie in cert contesti: piacere-nome-cognome-lavoro-in. Poi arriviamo io e il +1 di una signora molto nota. “Piacere, io sono tizia senza cognome, moglie di lui”; “io sono tizio senza cognome, marito di lei”. Entrambi abbiamo mandato un altro fuori a cacciare, almeno per una sera. E siamo stati quelli che si sono goduti di più la serata, sempre con un bicchiere pieno in mano.



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