Dal Giornale del Popolo del 13 ottobre
Mi autodenuncio: ho partecipato a un workshop
sull’imprenditoria digitale femminile. Non starò a mettere in campo le
attenuanti, che pure sono tutte verissime e valide. Non vi dirò che sono stata
costretta a farlo, che mi sono seduta in prima fila perché c’erano posti vuoti
da riempire, che ho fatto partire gli applausi del pubblico per compiacere il
mio capo. Non vi dirò tutto questo perché tutto questo non mi giustifica e non
mi assolve. Ho ascoltato tutto quello che una donna di successo ha raccontato
sulla sua vita digitale e su come ha fatto a fare della propria vita un
mestiere. Rispetto ad altri casi analoghi l’ho trovata anche simpatica e
piacevole e l’ho ascoltata. Ha raccontato di come abbia deciso di raccontare al
mondo (cioè al web) tante fasi della sua vita: dalla nascita dei bambini alla
ristrutturazione della casa, passando per l’organizzazione delle ferie. Il
video che ci ha fatto vedere raccontava alcune di queste cose e ovviamente ogni
passaggio includeva il logo di un marchio che, si deduceva, aveva offerto i
propri beni e servizi in cambio di quella visibilità. Dunque noi presenti
abbiamo dedotto che tutto questo le permetta di guadagnarsi la pagnotta. Sono
sicura che molte di noi, quelle che erano lì per caso e quelle che erano lì di
proposito, hanno pensato: perché non io? Cosa mi manca per fare una cosa del
genere? Non più tardi di qualche giorno fa, del resto, un insospettabile mi ha
proposto di farmi pagare i post su Instagram. Ecco, sarà che questo ottobre mi
porta a riflessioni profonde, ma mi sono domandata: quand’è che abbiamo deciso
che l’unica via d’uscita a questa crisi fosse quella di trasformare la nostra
vita in un lavoro? E soprattutto: durerà abbastanza perché anche i più
somari come me imparino a guadagnarci?
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