Dal Giornale del Popolo del 27 ottobre
Gli aperitivi con le amiche, specie quelle che non si vedono da troppo tempo, sono occasioni di epifanie alcoliche e domande esistenziali che vanno dal “dove hai preso quella borsa” al “perché continui a lavorare?”. Nessuno ti chiede perché ti lavi i capelli quando sono sporchi eppure tutti si sentono liberi di chiederti perché continui a lavorare o, peggio, perché non ti sei ancora inventata il lavoro che dia libero sfogo alla tua creatività e che (eccolo, il sacro Graal) ti permetta di gestire il tuo tempo con più libertà. Hai un residuo di pudore e dunque non tiri fuori il tema della realizzazione personale, di cui peraltro non ti interessa granché. Cominci a spiegare, perché sei pure sempre una personalità cinico-ironica con spiccata tendenza all’autocommiserazione e al pessimismo, che il lavoro flessibile non esiste. Che l’espressione imprenditrice di se stessi ti fa venire voglia di uccidere e che ti consideri enormemente fortunata a disporre di capi a cui poter addossare le colpe di ogni tua frustrazione lavorativa e organizzativa. Che il tema dell’invadenza del lavoro (così scarso oggi eppure così pervasivo nelle nostre vite) non è legato alla tipologia di lavoro ma, semmai, al nostro approccio al lavoro. Nessuno ha mai chiesto a mia nonna perché facesse la parrucchiera di giorno e la sarta di notte e nessuno si è mai preoccupato che non ce la facesse. Il mantra “si stava meglio quando si stava peggio” non mi appartiene e dunque credo che queste domande, esistenziali o alcoliche che siano, ci facciano bene. Ci mettono davanti alle nostre motivazioni, ai nostri desideri. Così ho guardato in faccia le mie amiche e ho detto la verità: lavoro per pagarmi borse che non posso comunque permettermi. E per sottrarre tempo (ma non risorse) alla mia tendenza allo shopping compulsivo.
Nessun commento:
Posta un commento