venerdì 13 marzo 2015

Team building e terapia di coppia

Dal Giornale del Popolo del 13 marzo

Tu che ti lamenti che lui non ti racconta mai niente, lui che non contempla distrazioni adesso che c'è un'intera serie di House of Cards da smaltire, i colleghi che scuotono la testa alla macchinetta del caffè perché “è mai possibile che cambiano il cappuccino con il caffè d'orzo senza avvisarci?”. Che sia in un matrimonio o in un'azienda è sempre la comunicazione il problema. Fatevi un'esame di coscienza e pensate se le liti non iniziano così. Non importa quale sia l'oggetto del contendere: le vacanze al mare, l'aumento del prezzo del caffè alla macchinetta, una quotazione in borsa o un sospetto di corna. Non importa neanche che si invochi chiarezza in situazioni che di chiaro non potrebbero avere nulla nemmeno nel migliore dei mondi possibili. Importa riferirsi sempre a un altro (presunto) universo in cui le cose funzionano e le comunicazioni arrivano, un altro mondo la cui unica caratteristica certa e di non essere quello in cui viviamo noi. E allora più comunicazione per tutti. Dovrebbero fregarsi le mani i laureati in Scienze di quella cosa lì e fare il tifo per chi propone soluzioni mirabolanti e certificate per rispondere a questi problemi. Dovremmo anche noi tifare per le sessioni di team building invece di domandarci in cosa si differenzino dalla terapia di coppia. Dovrei mettermi una mano sulla coscienza e credere alla laurea che ho nel cassetto. E smettere di pensare a mio padre, che non sa cosa siano i team né gli esperti di comunicazione, ma ha sempre ricevuto polli, conigli e damigiane di vino buono dai suoi operai. E non ha mai speso un euro in web reputation e team building.

Senza screenshot che Facebook sarebbe?

Dal Giornale del Popolo del 6 marzo

Ti telefonano come chi aspettava il cadavere sulla riva del fiume da tempo: «Hai ceduto eh?». Qualunque giustificazione li scatenerebbe: «Sì, figurati! Imparare a usare Facebook per lavoro!». Bisogna dissimulare, perché la gente digerisce meglio una conversione che una resa. E quindi occorre mostrarsi entusiasti e desiderosi di sapere: chiedere informazioni su tag, politiche di privacy, foto dei bambini, trucchi tecnologici per evitare richieste di amicizie indesiderate. Nell’insegnare al neofita gli amici danno un senso al loro essere su Facebook da un secolo: raccontano che un tempo non c’erano certe opzioni di privacy, che alcuni album fotografici possono essere visibili solo a chi vuoi, che i tag sono roba superata, che un “mi piace” non si nega a nessuno e non significa certo approvazione per il contenuto. Ti forniscono un codice di comportamento che tu devi vagliare per costruirne uno tutto tuo e se non hai nessuna intenzione di farlo puoi sempre dire di non avere tempo. Che in fondo ti si nota di più se su Facebook ci sei ma non lo usi. Che ti sei convertita per dedicarvi un’attenzione discontinua e distratta, come a tutto, del resto. Dà sempre l’idea che tu abbia altro da fare. Soprattutto se la tua principale occupazione è fare screenshot di cose ridicole e dibattiti imbarazzanti su Facebook per mettere legna sul fuoco sempre acceso del pettegolezzo via WhatsApp.

Mamme, figli e allergia alle storie edificanti di conciliazione

Dal Giornale del Popolo del 27 febbraio

Donne che si mettono in proprio, che diventano madri e decidono di cambiare lavoro, magari su gentile suggerimento di capi che proprio non tollerano di non vederle più davanti al computer fino alle sette di sera, a fare compagnia a quei maschi decisi a non tornare a casa finché ci sarà qualcuno sveglio. A volte succede che tutto va per il meglio e così quelle storie di successo discreto e conciliazione raggiunta arrivano sui giornali, corredate da fotografie di belle ragazze con un taglio corto e mai trascurato che spiegano quanto è bella la vita da padrone di se stesse. Certo, le bollette del negozietto di abiti vintage per bambini che hanno aperto le pagano per miracolo e in fondo se non ci fossero dietro padri, mariti o eredità tutta questa padronanza di se stesse non farebbe tornare i conti. Però vuoi mettere quanto è facile chiedere un occhio su tutto questo trovando il filtro giusto di Instagram? Così fiorisce una letteratura di storie edificanti. Che leggere fa piacere, per carità, ma fa anche un po' di rabbia. Chi lo dice che per far figli e lavorare si debba per forza diventare imprenditrici? E se una, dico una di voi, non avesse lo spirito imprenditoriale ma neanche quello della massaia?