venerdì 10 luglio 2020

All'outlet delle mutande

Da Ticino7 del 4 luglio
Ci sono provinciali più autolesionisti di altri, che oltre a coltivare sogni a abitudini al di sopra delle proprie possibilità (economiche e sociali) rifuggono ciò che altri provinciali, maggiormente dotati di senso pratico, sono soliti fare: frequentare gli outlet. Ora, immaginate di essere una di quelle persone e di ritrovarvi un giorno in un outlet di intimo. Quello che due giorni prima avevate deciso di abolire dal vostro armadio, stufe delle etichette lunghissime necessarie per indicare i posti più improbabili del mondo in cui la merce viene realizzata. Immaginate di andare in un posto del genere, di ritrovarvici per caso e di entrare, ovviamente, con il fermo proposito di non comprare nulla. Non solo perché il parco mutande e reggipetti di cui disponete vi consentirebbe di non fare la lavatrice per quattro settimane di fila, ma perché avete scoperto dentro di voi il gusto degli acquisti sostenibili, misurati, pensati. Il fast fashion non vi interessa perché ormai sapete che maturità non è solo idratare i talloni ma anche acquistare capi destinati a durare.
In pochi secondi avete di fronte un campionario di modalità per coprire e addobbare le chiappe che attraversa i decenni. Sì perché all’outlet il cotone freschissimo che viene pubblicizzato adesso non c’è e pizzi, nylon e tessuti sintetici spopolano su ogni scaffale annebbiandovi la mente mentre voi cercate di ricordarvi se siete una coppa A-B-C o se sia lecito chiedere a un commesso di indicarvi fino a che lettera arriva l’alfabeto. All’outlet ci sono ancora i perizomi invisibili, lo notate mentre la over 50 di fronte a voi si china sul cestone “perizomi in offerta” mostrando quello che indossa lei. All’outlet ci sono le coppe piene di frange e lustrini, le culotte e gli slip brasiliani tanto amati da chi pensa di aver trovato il giusto mezzo tra sexy e zozzona. Non sai mai quello che può succedere, dice il saggio, quindi alla mutanda s’abbina sempre un reggipetto intonato. Tornate a casa con un completino giallo fluorescente con cui illuminerete le vostre notti. In un momento di follia i toni del cipria non vi appartengono più ed eccovi anche in viola e arancione, pizzi e brasiliane.
Starete sveglie tutta la notte. A pensare che diavolo di canottiera bisogna abbinare con delle mutande viola e arancioni.

Il plexiglas e la montagna

Da Ticino7 del 27 giugno 2020 
Litigavamo perché ci vedevamo troppo, tutti vicini vicini dentro casa. Litigheremo perché non ci vediamo da troppo tempo, ora che ciascuno si è allontanato come poteva: i pargoli in villeggiatura dai parenti, i genitori in ufficio.
La dispensa è abbondantemente rifornita di lievito secco, pomodori pelati e tonno. Quest’ultimo l’abbiamo pagato una fortuna dall’ortolano nei giorni in cui non si trovava da nessuna parte. Solo dopo ci siamo ricordate che a nessuno di coloro cui sono concessi i carboidrati in questa casa piace il sugo al tonno. Abbiamo anche il latte a lunga conservazione e le patate, ottimi se non avessimo sviluppato un’intolleranza diffusa ai latticini. Un vero peccato dopo che le settimane di allenamento al purè davano i primi risultati.
Dall’altra parte, il frigorifero piange. Due uova e tre carote ammuffite ci aspettano ogni sera quando rientriamo, constatando quanto siano attraenti e pulite le case che restano disabitate per la maggior parte della giornata. La ricotta ci ha guardato per due settimane prima della data di scadenza come a chiederci quando ci saremmo decise a impastare quegli gnocchi con cui sfangavamo due pranzi a settimana durante il lockdown.
Siamo tornate alla pigrizia di sempre, aggravata dalla sensazione di aver tanto sofferto nei mesi scorsi da essere ora legittimate all’ozio più assoluto. La realtà conferma quello che prevedevamo all’inizio, sommerse dalle multiple epifanie delle cose semplici che ci arrivavano da ogni dove: non è andato tutto bene, abbiamo imparato molte cose e le abbiamo dimenticate al primo accenno di normalità, non ne siamo usciti migliori. Anzi, stiamo ancora litigando per capire se e come ne siamo usciti davvero, quando rientreremo, dove andremo a finire. Il desiderio di godersi questi scampoli di ritrovata libertà ci ha distratto; non solo dalla spesa e dalla cucina, compresa quella di sopravvivenza, ma dall’attività più importante: trovare i colpevoli.
Perché siamo convinte, signore mie, che dietro alle immagini dei gabbiotti in plexiglass sulle spiagge della Romagna (grazie a Dio rimaste al livello di spaventosi rendering pubblicati dai giornali) ci sono sempre e solo loro: i lobbisti della montagna, pronti a servirsi di qualunque mezzuccio per allontanare le nostre pelli candide dai litorali che meritano.

giovedì 25 giugno 2020

A proposito di citazioni

Da Ticino7 del 20 giugno 2020

“Non faccio le proiezioni di prova dei miei film. Non sono interessato al contributo degli spettatori. Una volta che ho finito, non voglio sapere altro”.

“Ho sempre odiato la realtà, ma è l’unico posto in cui si trovo gustose ali di pollo”.

“L’inferno sono gli altri, ha detto Sartre. Preciserei: l’inferno sono i gusti degli altri”.

“Essere un paria presenta alcuni lati positivi. Per esempio, non ti chiedono in continuazione di partecipare a talk show, scrivere frasi di elogio per un libro, salvare le balene, pronunciare discorsi di inizio anno”.

 “Come riassumere la mia vita? Tanti stupidi errori compensati dalla fortuna”.

Per chi si avventura nella biografia di Woody Allen (A proposito di niente, La nave di Teseo) il bottino di citazioni diffondibili sui social è ghiotto. La si compra perché è in bella vista in libreria, perché gli altri ne parlano, per leggere la versione del maestro sul famoso scandalo che lo ha investito e messo nella lista degli impresentabili, con decine di attori che si sono detti pubblicamente pentiti per aver lavorato con lui dopo le accuse di abusi sessuali sulla figlia adottiva Dylan. A questo punto dovrei ricostruire per il mio pubblico l’intricato complesso di relazioni tra Woody, Mia, i figli adottivi di lei, il figlio naturale dei due, le compagne precedenti, la compagna attuale (Soon-Yi), già figlia adottiva della Farrow e diventata a poco più di vent’anni amante del regista e oggi ancora al suo fianco come legittima moglie. Vorrei dirvi quello che penso e l’idea che mi sono fatta, ma ho preferito dedicare queste righe a fornirvi citazioni da sfoggiare in società o sui social, che sembra ormai essere l’unico motivo per cui si legge un libro. Vi raccomando soltanto di tenere per ultima la citazione che segue. Premettete che non siete grandi esperti di Woody Allen, ma ne apprezzate il cinismo comico, l’irresistibile vuoto di senso, l’ironia e – ovviamente – il cast. Poi concludete con le poche parole che rivelano che siamo tutti uguali, davanti alle tragedie della vita, alla morte e alle televendite.

“Se potessi tornare indietro, cosa non farei? Comprare l’affettatutto che ho visto in televisione”.

Il galateo della distanza

Da Ticino7 del 12 giugno 2020

I titolari di relazioni complicate sanno bene che finché l’odio, il dolore e la paura la fanno da padrone non ci sono grandi possibilità di errore. Con i ponti tagliati di netto e nessuna possibilità di cenni di pace, si può sperare nell’autoconservazione dell’intransigenza. Poi passa il tempo, arriva la distensione fisiologica, voluta o logisticamente provocata (“e siccome è facile incontrarsi anche in una grande città”) qualcosa cambia destabilizzandoci. Allora salutarsi significa rivolersi? Lei capirà che stai solo cercando di essere educato o riprenderà a telefonarti di notte? Lui capirà che vuoi solo recuperare i vestiti e le creme lasciate a casa sua e non intendi restare un secondo di più? E se davvero mettendo in borsa quell’antirughe di cui hai fatto a meno per un anno ti venissero idee malsane?

Sicché finito il lockdown (sì, continueremo a parlarne come accade con quelle relazioni complicate destinate a diventare pietra di paragone per tutto quello che viene dopo) qualunque cosa diventa un gesto politico. Uscire ancora poco e solo per necessità ti mette nella categoria di quelli che non l’hanno ancora superata. Uscire, dicono, è invece la cosa normale e giusta da fare. Certo, con misura. Ora che non ci sono regole stringenti e che bisogna affidarsi al buon senso, tutto diventa pericoloso. La mascherina, se la metti, sei ipocondriaco, cauto o italiano? L’aperitivo se lo fai con tre persone va bene ma con cinque sei un pericoloso sovversivo pure stronzo perché vanifichi mesi di sacrifici di una nazione? Nel dubbio, dicono, meglio andare in barca (del resto essere ricchi aiuta sempre). Le foto, soprattutto. Qualche giorno fa Martina Colombari ha pubblicato su Instagram una foto con delle amiche. La didascalia era un disclaimer a prova di hater e specificava che avevano tolto la mascherina soltanto cinque minuti per fare la foto dopo essere state sedute a debita distanza per tutto il tempo.

Chi ha una certa dimestichezza con gli amori o con le diete (esperienze analoghe perché basate su un dosaggio discontinuo di generi di prima necessità) sa che la fase più difficile è quella del mantenimento. Un dolcetto, un bacio. Solo un momento vicini vicini. Solo per bere uno Spritz. E aspettare al varco il disordine che ravviva il nostro vivere.

Jack Frusciante dal gruppo all'antologia

Da Ticino7 del 6 giugno 2020

Le librerie dei genitori non ci sono mai quando servono. Oggi, che ho un Kindle per rimediare alla cronica mancanza di spazio, vorrei essere nella camera da letto che dà sul fiume e ripescare l’edizione consunta di Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Troverei sottolineate più volte le frasi mandate per anni nella memoria, da “Alex, inutile e triste come la birra senz’alcool” a “Posso sopravvivere col pilota automatico, ma vivere è un’altra cosa”. Alcuni di noi ancora rispondono “medio” quando qualcuno gli chiede come stanno, citando inconsciamente la risposta classica del signor Alex D. a cui piaceva sentire la gente sollevata quando capiva “meglio”. Enrico Brizzi, autore di quel romanzo che ha riempito i diari scolastici di coloro che oggi gravitano intorno ai quarant’anni, è enormemente responsabile anche di tutte le loro velleità letterarie.

Avevamo una quindicina di anni quando uscì il libro. Lo scriveva un nostro quasi coetaneo di allora, raccontava di due adolescenti innamorati, dei loro dialoghi letterari e musicali, ci regalava le dichiarazioni d’amore che avremmo voluto ci fossero dedicate in tutti gli anni a venire (“Lei non era una ragazza, era un intero disco di Battisti”), era uno dei primi libri che volevamo davvero leggere e rileggere e di cui nessuno ci avrebbe mai chiesto di compilare una scheda riassuntiva come compito in classe.

Ricordiamo con imbarazzo l’esperimento con Violante Placido e Stefano Accorsi, insufficiente come solo può esserlo l’adattamento cinematografico di un libro di culto e siamo sconvolti, oggi, nell’apprendere che Jack Frusciante è uscito dal gruppo è ormai considerato un classico, che ha compiuto 25 anni, si trova nelle antologie scolastiche, è riassunto e commentato in quei siti che forniscono materiale pronto all’uso per gli studenti e scomodano espressioni come “romanzo di formazione” e “narratore onnisciente”.

Insomma, il lettore si chiederà come la stiamo prendendo: la pandemia, i chili di troppo, i panni da stirare, il conto in banca prosciugato, le scoperte tardive su Jack Frusciante fuori dal gruppo e dentro l’antologia, l’egocentrismo violento di chi passa gli anta in pandemia e ritiene sia interessante per il prossimo sentirne parlare. La risposta è sempre una: medio.

Un maggio ridicolo

Da Ticino7 del 30 maggio 2020

“E scusa, mamma, quando hai comprato quel vestito eri già così?”. “Così come?”, strabuzzi gli occhi considerando che a parlare è la più benevola delle due. Disquisiamo dieci minuti buoni su un abito rosa cipria al ginocchio, motivo sangallo nelle maniche, lacci in vita. Ingenua io, che vedendolo addosso alle bambine stavo persino meditando di riprovarlo. Sarebbe stata la seconda volta che l’avrei indossato nella vita, dopo quella nel camerino di un negozio di lusso aperto alla plebe per una svendita speciale. Proprio quando stavo per decidermi a venderlo (sì, sono certa che a breve riuscirò ad essere una persona organizzata e felice e diventerò ricca vendendo i vestiti e le scarpe che non indosso più) le bambine hanno iniziato a giocarci.

Le regine e le principesse che affollano queste stanze da cui nessuno di noi sembra più voler uscire sono incredibilmente loquaci e aperte. Chiacchierano, mangiano pezzi di formaggio sedute sul letto, con un ventaglio e una pochette di Dior trafugata chissà come. Chiedono cartoni e libri, gelati e qualche giro in bicicletta. Per noi adulti il tempo è ancora infelice e improduttivo, lui dice che non può essere produttivo il tempo di chi balzella da un cellulare all’altro e scorre titoli a caso senza leggere nulla. Ho appreso con sconforto che Fabio Volo ha scritto buona parte del suo ultimo libro mentre era non so dove con la famiglia. È un uomo, penso. Loro riescono a scrivere libri e trattati in casa, mentre noi non guadagniamo neppure la privacy necessaria a farci la maschera lifting appena comprata on line. Figuriamoci per il trattamento sciogligrasso che prevede un’ora con le cosce avvolte in un tutone plasticato. Guardandoti le bambine ridono, ormai dandosi di gomito tra loro. Cercano persino l’appoggio del maschio di casa: “Ma cosa fa la mamma secondo te?”. È iniziato tutto qualche mese fa e questo lockdown sembra averci appicciato addosso il personaggio dei genitori incomprensibili, a volte buffi, ogni tanto persino insopportabili. E ci disegnano così, appesi alle nostre angosce, al tempo che non basta mai, ansiosi di arrivare al weekend perché qualcuno esca di casa lasciandoci il tempo e lo spazio di pulire come si deve. Si chiude un maggio di corsi d’inglese on line e niente palestra. Giugno non può che migliorare.

 

After life

Da Ticino7 del 23 maggio 2020

Si dice che solo i comici più caustici sappiano farci piangere davvero. Mai adagio fu più azzeccato, penserete guardando After Life, la serie Netflix di cui è autore, sceneggiatore e attore protagonista il comico inglese Ricky Gervais. Irriverente, dovremmo dire se la parola non facesse tanto anziano critico in decadenza, è un comico brillante e sfanculatore d’eccezione, abilità che ha avuto l’occasione di dimostrare più volte presentando i Golden Globe. L’ultima volta lo ha fatto nel gennaio scorso, quando ha ironizzato tra gli altri sul principe Andrea, su Jeffrey Epstein, sulle fidanzate di Leonardo di Caprio (“al termine della première di C’era una volta a Hollywood la fidanzata del momento era troppo vecchia per lui”). “Ricordate - ammoniva allora – sono solo battute. Moriremo presto e non ci sarà un sequel, quindi ricordatevelo”.

C’è stato invece un sequel (la seconda stagione ha debuttato su Netflix qualche settimana fa) proprio per After Life, in cui Ricky Gervais è Tony, giornalista di un quotidiano locale di una piccola cittadina inglese. Devastato dalla perdita della moglie, Tony inizia a dare il peggio di sé. Tratta male i colleghi, gira con una scatola di sonniferi sempre in tasca con il proposito di farla finita prima possibile. Eppure, tira avanti. Tutta colpa del cane, che continua a chiedergli da mangiare quando lui ha deciso che è arrivato il momento di dire basta. Ma Tony non può disobbedire all’amata Lisa, morta di cancro pochi mesi prima, che in un videomessaggio che lui guarda a ripetizione ogni giorno lo riempie di osservazioni e raccomandazioni. Tra queste ci sono quella di accudire il cane, quella di tenere in ordine la casa, quella di provare ad essere gentile con gli altri. Non si può dire che a Tony riescano tutte queste cose. Gli riesce, però, di restare vivo e, un giorno dopo l’altro, novità, solitudini e personaggi improbabili (dalla prostituta sensibile, al postino senza tetto, fino alla compagna di panchina al cimitero) si insinuano nella sua vita. Senza nessun colpo di scena, ma solo (si fa per dire) con la vita che prosegue mostrando la propria forza indomabile. Nessun minimalismo né valorizzazione posticcia delle piccole grandi cose che contano. Piuttosto un inventario generoso e sincero di quello che accade. E che salva, sempre, la possibilità di un sorriso insieme a quella di un pianto.

 

In forma per uscire

Da Ticino7 del 16 maggio 2020 

Anche se non avete mai indossato la tuta e sempre buttato la spazzatura con in testa il cerchietto delle grandi occasioni, quando le regole si allentano e i pantaloni stringono, l’aria tersa vi fa tremare le gambe. Dopo settimane in cui restare in casa è un obbligo, scegliere di non farlo diventa tutt’altro che semplice. I forzati dello smart working continuano a soffrire, ma in fondo al cuore coltivano il terrore per il giorno in cui verranno convocati alla scrivania, magari privati delle pause caffè e dei colleghi abbastanza vicini da darsi di gomito al momento giusto.

Gli esperti, almeno quelli citati nei titoli degli articoli che leggiamo distrattamente per non stirare vagonate di panni, dicono che si chiama “sindrome della tana”. È certamente quella e non la pigrizia atavica aggravata dai chili presi a impedirci di andare a correre come vorremmo. Uscire fa paura perché non si sa dove andare né come comportarsi, certo. Uscire fa paura per tante ragioni più o meno razionali. Uscire fa paura perché, come nella fenomenologia delle storie d’amore che finiscono, si potrebbe incontrare qualcuno. La differenza, se la storia che ci portiamo dietro è una pandemia, è che non c’è una sola persona in grado di farci fermare il cuore e arrestare la salivazione. Qualunque persona, per il fatto stesso di esistere e di trovarsi sul nostro stesso marciapiede, ci fa paura. I bambini devono imparare a tenere le distanze, protestano perché “come si fa a giocare senza toccarsi”, contestano questa moda di salutarsi con un buffetto sul gomito, ti rinfacciano che fino a ieri raccomandavi di starnutire proprio nell’incavo del gomito. Si ribellano a ogni forma di interazione sociale o di tentativo di apprendimento mediato dalla tecnologia. Con la fierezza e la protervia di un Barone Rampante (ci è rimasto nel cuore) dicono: meglio soli che su FaceTime, meglio in casa che per strada a girare in tondo senza potersi fermare nei giochi del parco.

Noi adulti dovremmo mediare e trovare una soluzione, aiutare le paure ad emergere fino a dissolversi. Ma temiamo troppo di incontrare chi, mesi fa, ci aveva fatto i complimenti per i chili persi. Restiamo in casa, ancora un po’.

 

Sesso e lockdown

Da Ticino7 del 9 maggio 2020

Quattro, cinque, dieci. La bontà del dato dipende dal rapporto (complicato) tra numero di giorni di isolamento, variabile figli, metri quadrati di casa, presenza di giardino/terrazzo, condomini simpatici, parenti a portata di mano. Per gente che ha poca dimestichezza con la statistica, analizzare il tema sesso e lockdown è incredibilmente complicato.

Tendenzialmente ogni amica a cui si telefona riferisce di ritrovate vivacità di vite sessuali altrui (che volete, c’è gente che ama raccontare e vantarsi) e intanto scuote la testa: “Ma come fanno, mi dico, che io mi alzo e vado a letto pregando che la rete wi-fi regga a tutto questo stress?”.

Il minuscolo campione intervistato (certamente non staremo qui a cavillare sulla sua rappresentatività) alza gli occhi al cielo come quando riceve un messaggio sulla chat di classe che invoca la class action contro la scuola che da pochi compiti, la didattica a distanza che non funziona, le video lezioni, i webinar e il digital divide che impedisce ai nostri figli di imparare e soprattutto di levarsi di torno per almeno due ore consecutive.

Quelli che riscoprono le gioie delle lenzuola lo dicono a bassa voce, in imbarazzo come chi ha ancora babysitter e giardini di svariati metri quadrati. Le amiche che indagano si trasformano in vipere più velocemente del solito: «Bisogna capire a cosa erano abituati prima!». In pochi secondi siamo al grande classico, come un qualunque governante che cerchi di smorzare o aumentare il panico (a seconda dell’obiettivo politico del momento): i numeri vanno interpretati, contestualizzati e bisogna analizzare tutto con molta calma.

Le persone che ho cercato di intervistare sono più interessate a trovare una mascherina che non li faccia sembrare adulti giocato dell’Allegro Chirurgo. Mi hanno chiesto se sono diventata una fan del genere fantasy, se ho voglia di scherzare, se non mi rendo conto che qua l’obiettivo primario è resistere ed evidentemente il sesso viene considerata un’attività ludica e non certo essenziale. La mia amica che ha in casa il lievito madre, sostiene con decisione che ci sarà un sensibile aumento delle nascite tra qualche mese. Ma saranno tutti primi fi

Il benaltrismo che ci aspetta

Da Ticino7 del 2 maggio 2020

Quest’anno che, come dice qualcuno, rischiamo che la prova costume si tenga per iscritto, maggio fa una paura diversa dal solito. Ricominciare a uscire è strano quanto stare in casa. Ora che abbiamo frigoriferi pieni in cui non entra più uno spillo e l’abitudine a un ritmo disumano ma consolidato. Dopo giorni in cui tutto era confuso (i carboidrati, le proteine, le email, gli orari, la scuola, il lavoro, la notte, il giorno) l’idea di uscire ci fa tremare le gambe. Come ci guarderanno gli altri? Indosseremo davvero quella mascherina in tessuto damascato? E i compagni di scuola si potranno invitare? Compreremo ancora vestiti con lo stesso gusto e con la stessa serialità di prima?

Un cazzeggio così spinto non può che portare a girovagare su Facebook, in cerca di distrazioni più che di risposte. Un noto marchio di moda mi aspetta al varco come i vitelloni in discoteca a Riccione quando avevo 16 anni e mi propone di esaltare la mia femminilità con dei sandali-ciabatta imbottiti e fluorescenti. Ma quelle sono ciavatte, avrebbe detto quella buon’anima di mia nonna, che persino per la montagna aveva scarponcini da passeggio con il plateau. Le altre donzelle in target, signora mia, si scatenano nei commenti. Scandaloso vendere ciabatte a quel prezzo, chiamarli sandali, abbinarli ad altri accessori che hanno un costo ancora più sproporzionato. “Ma con i tempi che corrono, non vi vergognate?”.

Con i tempi che corrono. Eccolo individuato, il trend dei prossimi mesi. Si comincia già adesso, quando si azzanna un gelato dopo cena con fare furtivo. “Con tutto quello che dobbiamo sopportare! Io, che ho iniziato a cucinare alle sei di stamattina e smesso di stirare dieci minuti fa, non mi merito forse questa coccola?”. Usciremo e sì, torneremo a litigare. Poi ci guarderemo in faccia allargando le braccia: ma con tutto quello che abbiamo passato insieme (leggi: condiviso la prigione) possiamo ancora scannarci per queste piccolezze? Davvero è così importante che lui non rimetta mai il sacchetto nuovo nel bidone dopo aver portato via la spazzatura? Travolti dal benaltrismo ripenseremo a quelle ciabatte di alta moda: dopo settimane di tutta non te lo vuoi concedere un regalino?

 

Il quaderno della noia

Da Ticino7 del 25 aprile 2020

“Se andiamo in cortile porto con me il quaderno della noia. Certamente avrò qualcosa da scriverci”. Consapevoli che la positività è tutto, specie nell’infanzia, convinciamo le creature all’ora d’aria. Ci tiriamo dei frisbee, giochiamo a palla, malediciamo per l’ennesima volta l’aver perso le chiavi della bicicletta, guardiamo il triangolo di cielo azzurro. All’adulta che invece di lavorare si impegna a farla ridere riserva un’occhiata compassionevole: “Si vede che lo fai solo per farci divertire”. Ero pronta alla regressione, forte delle mie letture impegnate fatte di newsletter Parenting del New York Times. E invece mi ritrovo di fronte a sprazzi di preadolescenza che hanno pensato bene di approfittare della pandemia globale.

Il pongo, che nelle prime settimane sembrava magico, diventa proibito. Noioso il pongo, noioso il libro, noiosa la doccia, noioso darsi lo smalto, noioso tagliarsi i capelli. L’inizio dello scontro è arrivato con Il barone rampante. L’audiolibro ci ha innamorati, facevamo quasi tenerezza la sera tutti incantati ad ascoltarlo. Ridere a sentire di Cosimo Piovasco di Rondò che stabilisce il suo bagno nel fiume Merdonzo, intenerirsi e piangere per l’amicizia libresca e avventurosa con il bandito Gian de Brughi, sognare di fronte all’amore del Barone per Violetta. “Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così”.

Un pezzetto ogni sera, sembrava di salire sugli alberi anche a noi. Fino al capitolo finale. Che gli adulti non si ricordino il finale viene considerato imperdonabile. “Cosa leggete a fare se non ricordate il finale? E soprattutto se non ricordate se si sposano o no?”.

Il vero finale, così poetico e fedele alla natura del Barone, non soddisfa l’uditorio bambino. Ci arrampichiamo sugli specchi dicendo che il viaggio conta più della meta, tiriamo in ballo i gusti, il bello di discutere di cose di cui non siamo d’accordo. Fino a ieri eravamo l’adulto salvifico e depositario di certezze. Oggi siamo ebeti di mezza età che cercano di far ridere e non ricordano il finale dei libri. Non tutto si è fermato. Noi siamo andati avanti. E ci godiamo il viaggio (senza trascurare il finale).

 

Litigare per resistere

Da Ticino7 del 18 aprile 2020

All’inizio è tutto un notare che l’isolamento migliore è quello degli altri: quelli con un terrazzo, quelli residenti in zone baciate dai più svariati servizi delivery, quelli dotati di forma fisica accettabile, quelli single, quelli fidanzati, quelli con figli grandi, quelli senza figli. Per non parlare di quelli col giardino e con il lievito già in casa.

In un secondo momento è importante classificare le insopportabilità assortite. In primis, gli entusiasti del tempo ritrovato, i cantori della severa giustizia della natura che rimette l’uomo al suo posto, ponendo fine ai suoi sogni di onnipotenza. Seguono a ruota gli ottimisti, radunati dietro hashtag variamente banali e retorici. Quelli convinti che tutto ciò ci migliorerà.

In generale in queste giornate liquide, annoiate e frenetiche è importante mantenere delle parvenze di normalità. Pensavo che vestirsi, truccarsi e fare gli squat seguendo i consigli di Giulia De Lellis fosse sufficiente. E invece l’allenamento total body, corpo e mente, lo avevamo a portata di mano senza saperlo. Il motivo scatenante importa poco. Adesso che si esce appena e i calzini non restano in giro, vanno benissimo sia l’irritabilità costante che la sua mania di disinfettare la maniglia della porta ogni volta che scendete a buttare la spazzatura (converrete che il fatto che tutte queste cose siano comprensibili non le rende piacevoli). Insieme a lavarci le mani, litigare è forse l’unica cosa che possiamo e dobbiamo fare con maggiore intensità di questi tempi, per mantenere un contatto bestiale con la realtà. Sbattere la porta, uscire senza alcun tipo di mascherina a gridare fortissimo “meglio farsi arrestare che restare qui dentrooooo”. Quell’altro non esce, ha ancora in mano l’alcool per disinfettare la maniglia, non mette piede fuori casa. Inizia a telefonare, implora di tornare, tutto si sistemerà, bisogna avere pazienza e il periodo è difficile per tutti. Resistere il più possibile fuori dal portone, non rispondere ad almeno tre chiamate per far credere che avete fatto il giro dell’isolato mentre non vi siete mosse dal portone. Resistere, resistere, resistere. Senza sbavare il mascara.

sabato 11 aprile 2020

Pane per i nostri denti

Da Ticino7 dell'11 aprile 2020

Nei giorni dell’ossessione per il lievito mi è stato ricordato che abbiamo posseduto, svariati anni fa, una macchina del pane. Pare che a gridare gli insulti più svariati all’indirizzo degli autori del regalo fosse proprio la sottoscritta. “Perché dovrei fare in casa qualcosa che posso uscire a comprare?”. La macchina del pane ha stazionato per diversi mesi nel ripiano alto della cucina, ancora imballata. Poi si è trasferita in cantina. Poi ha preso il volo per altri lidi, verso qualcuno che spero fosse dotato di lievito in questi tempi strani. Anni dopo ci ritroviamo a sorvegliare con prudenza un impasto che lievita.

Mia figlia ha severamente proibito l’utilizzo delle espressioni “in questo periodo” e “di questi tempi”. Ritiene, a ragione, che la sua partecipazione al dramma collettivo si debba limitare al lavaggio frequente delle mani cantando due volte di seguito la sigla della Pimpa. Ciascuno di noi sceglie qualcosa da fare per onorare l’emergenza. Molti adulti scelgono la cucina nella sua variante più complessa e primitiva: il pane.

Sgombriamo il campo da un equivoco: non lo si fa per occupare il tempo. È importante chiarirlo a tutti coloro che mettono a disposizione tutorial, corsi di aggiornamento, audiolibri. Tutto gratuito nell’ambito dell’imperdibile offerta-speciale-periodo-di-reclusione. Ci iscriviamo a tutto il possibile e teniamo in considerazione tutto, ma non concludiamo niente. È il nostro modo di difendere la normalità e una possibilità di fine dall’incubo: procrastinare è sempre importante, possiamo imparare a fare il pane (anche se farlo una volta non significa imparare) ma non vogliamo certo rinunciare al diritto ad una quarantena improduttiva.

Al termine di tutto questo avremo ancora libri non letti e programmi non rispettati. Direi che ne avremo molti di più perché stare in casa significa non avere mai tempo per fare niente. Alcune di noi lavorano per avere venti minuti di libertà verso l’ufficio in cui telefonare senza nessuno che si arrampica sulle gambe, lo sapevate? Ricominceremo. Diremo che abbiamo imparato la pazienza aspettando la lievitazione del pane. E soprattutto aspettando di trovare una bustina di lievito acquistabile.

 

venerdì 3 aprile 2020

Metà alfa, metà metrosexual

Da Ticino7
Come l’amicizia tra uomini e donne, le relazioni a distanza, il vestito elegante-sportivo e il mostro di Loch Ness quello del maschio Alfa è un mito sul quale siamo periodicamente condotte a ragionare causa avvistamenti. Come tutti i miti, anche quello del maschio Alfa esiste e affonda le radici in esigenze e osservazioni reali. Il mito esiste quando ci lagniamo del fatto che nessuno più ci paghi il conto al ristorante, ci ceda il passo in ascensore, apra i barattoli con la sola forza delle mani e le birre con l’accendino. La realtà è che noi donne non vogliamo affatto il Maschio Alfa, ma vogliamo un pizzico di alfa nel maschio che ci siamo scelte. Ed esercitiamo con metodo il diritto (sacrosanto) di risentirci se quel pizzico di “alfitudine” non viene espresso nei modi e nei tempi che desideriamo.
Prendiamo il caso, ovviamente ipotetico, di una coppia in isolamento e convivenza coatta. Ciascuno ha il suo computer, una connessione internet potente, nessuna necessità di chiacchierare. Niente di diverso dal solito, insomma, se non fosse che gli spazi sono affollati ad ogni ora del giorno e là dove un tempo erano tutte borse e cabine armadio, sta parcheggiato il Camper dei Sogni di Barbie. Si dirà: non c’era bisogno di catastrofi pandemiche globali per rendersi conto d’aver perso per strada ampi pezzi di libertà.
Il maschio di casa ha resistito fino all’ultimo andando in ufficio, usciva solo e armato come chi si inoltrasse nella giungla per portare a casa qualcosa da mangiare. Finito l’eroismo la giungla è arrivata dentro casa. Ogni mattina, armato di pazienza fino ai denti, esce dalla cucina a vista per chiudersi in camera da letto. Cinque passi richiedono un abbigliamento adeguato. La parte femminile della famiglia è vestita e truccata alle nove del mattino, il pigiama è severamente vietato dopo quell’ora, perché ci è stato insegnato che bisogna essere sempre in ordine e rendere giustizia a un guardaroba che non basterà una vita ad ammortizzare. Lui non fa una piega. Si avvia alla camera da letto indossando camicia bianca perfettamente stirata, golfino blu e pantaloni della tuta. Metà maschio alfa, metà metrosexual. A stretto uso di video call.

In sella al cambiamento

Da Ticino7 del 25 marzo 2020
Dice: sarebbe bello che anche tu parlassi di moto.
Dico: la cosa più vicina a una moto che conosca è la bicicletta, ma è come paragonare una scarpa e una ciabatta.
Dice: Non sarà mica la prima volta che parli di cose che non conosci e ti esibisci in paragoni arditi?
La redazione ha i modi giusti per riportare all’ordine i collaboratori scansafatiche, pertanto eccoci qui. A mettere in primo piano, come sempre, l’interesse del lettore. Perché questo è il fatto: anche il lettore e la lettrice che in questo momento non abbiano altra urgenza che quella di idratare i propri talloni, prima o poi si imbattono nel tema moto e dintorni. Qui non parliamo infatti di chi nasce centauro, di chi da sempre affronta le vacanze con un bagaglio grande quanto un forno a microonde. Qui parliamo di neofiti, mogli e compagne che alle moto arrivano per vie traverse, spesso condotte dallo sfizio che lui, sull’orlo dei quaranta, ha deciso di togliersi. Aveva la moto da giovane e oggi, arrivato a un giro di boa tanto significativo, vuole condividere la passione. Avere un uomo che si entusiasma non è cosa da tutti i giorni, così lei cede.
Lui passa giorni a scegliere il modello confrontandosi con gli amici. Ha negli occhi il sollievo di chi ha già allocato il budget e deve soltanto decidere i dettagli. Fa tenerezza: è lo stesso senso di trepidazione che proviamo noi scegliendo la borsa dell’anno. Certo, il suo sfizio costa come le borse degli ultimi cinque anni messe insieme, ma non si può essere pusillanimi con i desideri.
Un giorno esce soddisfatto come un medico dalla sala parto e pronuncia un marchio noto seguito da una sequenza di numeri e lettere. Lo schema prevede che si annuisca convinte. Il grosso sembra fatto e invece il bello inizia adesso. Come un Fred Flintstone qualunque sente il dovere di occuparsi della tribù. I bambini non sono contemplati (se c’è una cosa bella delle moto è che hanno due posti), ma lei non può tirarsi indietro. Lui sfodera il sorriso accondiscendente con cui si propone la caramella per la gola alla creatura: dobbiamo comprare dei vestiti adatti. La parola vestiti dovrebbe essere quella rassicurante.
L’abbigliamento da moto, in effetti, può regalare certamente più occasioni di utilizzo di quello da sci (verrà il giorno in cui vi racconterò della 39enne condotta in un negozio sportivo ad acquistare gli scarponi la vigilia di Natale). L’altra parola magica è riutilizzabili. Solo il tempo chiarirà che per ammortizzare davvero la spesa e soprattutto utilizzare realmente l’outfit bisognerebbe indossare la giacca con le imbottiture tutti i sabati andando a fare la spesa.
A un anno esatto dall’acquisto si tirano le somme. I viaggi in moto in due si contano sulle dita di una mano. Di quelli contati lei ricorda: il caldo devastante al semaforo che sale dai piedi e arriva in un secondo al cervello; la giacca di pelle troppo stretta; l’impossibilità di parlare perché i microfoni del casco, per un motivo o per l’altro, non funzionano mai; l’impossibilità di prendere in mano il telefono per paura di volare via alla prima accelerata.
Quella era la primavera scorsa, questa sarà tutto diverso. Sceglieranno le giornate meno calde, sistemeranno i bambini, ripareranno i microfoni per avere tempo di parlare del suo sfizio dei quarant’anni. Per lui la moto, per lei la borsa di Hermés. In fondo è già primavera e tutto questo allarme finirà. E si potrà uscire di casa, per passeggiare, per morire di caldo ai semafori, per provare l’ebbrezza di litigare a gesti (no, i microfoni non funzioneranno ancora) dopo settimane di allenamento a casa. E per rispondere a una fondamentale domanda: si litiga meglio su due ruote o tra quattro mura?

Performing love

Da Ticino7 del 18 marzo 2020
Un gentiluomo, tenero, con un look improbabile e affascinante. Ricordando il primo incontro con Ulay, che diverrà suo compagno di arte e di vita per dodici anni, Marina Abramovic raccontava la fascinazione della ragazza ben educata (“io studiavo inglese, studiavo pianoforte, lui lavorava già”) di fronte a un ragazzo rimasto orfano durante la seconda guerra mondiale e già noto nel mondo della performing nel 1976, anno del loro primo incontro ad Amsterdam. Intuiscono di avere bisogno l’uno del corpo dell’altra. Il loro amore diventa un terreno di sperimentazione.
Nei video e nelle foto di repertorio emersi qualche giorno fa, quando Ulay è morto di cancro, ci sono un ragazzo alto, magro, dinoccolato e bellissimo e una ragazza giovanissima, esile e determinata. Per diversi anni Marina e Ulay vivono in un furgone. L’opera si chiama Permanent movement. La performance più famosa è certamente “Imponderabilia” in cui Marina e Ulay sono nudi appoggiati in piedi agli stipiti della stessa porta, si guardano negli occhi mentre il pubblico deve scegliere se dare le spalle all’uno o all’altra per passare. Non ci vuole molto perhé la polizia intervenga a chiudere la mostra. Le sperimentazioni continuano, con performance in cui si schiaffeggiano o si corrono incontro per sbattere l’uno contro l’altra con violenza crescente. Sempre in una vecchia intervista, Ulay racconta che Marina ha una resistenza incredibile quando si tratta di infliggersi qualcosa.
Quando decidono una delle loro performance più clamorose non sanno che sarà l’ultima insieme. Si intitola “The Lovers”. Scelgono di percorrere la muraglia cinese a piedi, partendo da due parti opposte per incontrarsi a metà. Sono tre mesi faticosissimi, a Marina tocca il percorso più impervio. Quando incontra Ulay – racconta nella biografia – scopre che lui era lì fermo da tre giorni, la aspettava nel punto più scenografico in cui farsi fotografare. Nel frattempo, aveva avuto una relazione con l’interprete, che aspettava già un bambino. Sulla muraglia cinese l’amore finisce. La storia dei tradimenti – da entrambe le parti – è ricca e confusa.
“La cosa più triste – scrive Marina nella sua autobiografia – era che fallissimo per il più stupido e banale dei motivi, la vita domestica”. Bisogna avere molta resistenza per infliggersi l’amore.

Bello lo smart working ma non ci vivrei

Da Ticino7 del 6 marzo 2020
Anni fa guardavamo con ammirazione l’amica assunta in una grande azienda. Cinquecento impiegati, duecento scrivanie, nessun posto assegnato. Una mattina potevi arrivare e trovarti al fianco l’amministratore delegato, accomodato con il suo pc portatile in un punto qualunque dell’open space, all’esterno del quale si trovavano acqua e frutta fresca a disposizione di tutti. Ma poi perché andarci, in ufficio? La tecnologia ci consente di fare qualunque cosa a distanza e le magnifiche sorti e progressive erano finalmente a portata di mano (almeno per lei).
Del resto, siamo talmente moderne da aver sempre creduto nelle relazioni a distanza. a convivenza, Dio sa se oggi ne abbiamo le prove, peggiora tutto e tutti e l’ecosistema di un ufficio non è così distante da quello di una coppia e di una famiglia. Ci si odia ad intervalli regolari. Si gode infinitamente nei momenti di solitudine. Quando i biscotti durano per settimane, la stampante non è intasata, il cesto della biancheria rimane vuoto per più di cinque minuti, alla macchinetta del caffè non c’è coda né aspettativa sociale di chiacchiera.
Galvanizzate dai racconti dell’amica e dalle profonde analogie tra rapporti di coppia e rapporti di lavoro affrontiamo lo smart working con la positività delle persone di larghe vedute. Vestite di tutto punto sediamo al tavolo del soggiorno a riaprire quel file che in ufficio non riusciamo a completare. In due ore il lavoro finisce e non c’è neanche una collega con cui chiacchierare; la situazione peggiora quando la prole resta a casa per qualche motivo. Dopo pochi giorni, l’esperimento sociale si trasforma in incubo: si sgomita pur di uscire, si inventano riunioni fondamentali, si accusa l’ottusità dei capi: “Sai, lui odia fare le call devo andare io in ufficio”.
Vorrei dirvi che il sogno è durato poco. La favola delle scrivanie in difetto è finita pochi anni dopo, quando un terzo dei dipendenti dell’azienda luminosa e progressiva è stato licenziato. La loro presenza, nella sede ricca di acqua e frutta e povera di scrivanie, era così aleatoria da essere diventata accessoria. I rapporti a distanza devono sempre sfociare in qualche forma di convivenza: occorrerà pure dare sostanza ai litigi, no? L’amore non è sempre cosa per gente di larghe vedute.


Ultim'ora Tik Tok

Da Ticino7 del 28 febbraio 2020
Immaginate di essere di fronte alla televisione, sintonizzati su uno di quei canali all news dotati di fascetta sottopancia con le notizie dell’ultim’ora. Saprete che esiste una legge (certamente scientifica) per la quale una persona qualunque che si trovi di fronte a questo fenomeno sarà condotta a leggere sempre e solamente le stesse due notizie. Leggerete dieci volte che un cervo ha attraversato il centro abitato ma non riuscirete mai a sapere come finisce la notizia successiva. Proverete a concentrarvi ma qualcosa arriverà a distrarvi, sempre subito dopo la notizia del cervo. Ecco. Questa è l’esperienza più simile che conosco a quella di un adulto che si trovi di fronte Tik Tok.
È il social degli adolescenti, come vi spiegano bene le autorevoli firme che scrivono in queste pagine. Qui, nell’enclave di non autorevolezza e tripudio di idiosincrasie caratteriali che è questa colonna, vi diremo che è il social che ci meritiamo, punizione per tutto quello che abbiamo fatto come l’Alberto Sordi di Ecce Bombo. Il “rullo” delle notizie dell’ultim’ora è solo in parte simile a Tik Tok: una volta entrati non avrete nessun appiglio, tanto meno quello di notizie o elementi ripetitivi che vi consentano di orientarvi. Sul vostro telefono apparirà senza soluzione di continuità una cascata di contenuti idioti e divertenti (balletti, gente che parla con voci strane). L’algoritmo di Facebook ci propone indignazione e pettegolezzi, quello di Instagram cose da comprare per sentirci finalmente perfette. Quello di Tik Tok pare avere il solo scopo di stordire fino ad asfaltare.
Certamente alla Ficcanaso sfuggono le potenzialità infinite dello strumento. Da qui la vediamo in modo molto basico: Tik Tok è un ritorno sfacciato all’essenza stessa di ogni social, ossia il cazzeggio. Per anni ci siamo arrabattati su professioni come il social media manager e sulle attività “editoriali” legate ai social. Il futuro, Tik Tok, è un ritorno alla preistoria. Con l’aggravante che bisogna allenarsi tantissimo. Quasi tutti i video degli influencer “tradizionali” (Chiara Ferragni in testa) che sbarcano sull’ex Musically iniziano con constatazioni di quanto sia difficile usarlo. Servono infatti un allenamento pazzesco e una dedizione metodica. Occorre allenarsi tantissimo per non dire assolutamente nulla. E farlo in modo assolutamente divertente. Del resto, ci voleva metodo anche per la gara di rutti alla cena di classe delle medie.

Educazione siberiana e lavaggio di mani

Da Ticino 7 del 14 febbraio 2020
«È inutile che tu faccia finta di nulla: so del Coronavirus. Ne hanno parlato a scuola e per capire ho letto sul giornale». A quanto pare del Corona Virus hanno parlato i bambini durante l’intervallo e il giornale trovato in bagno è stato ritenuto attendibile quasi quanto i genitori non allarmisti. «Ce ne hanno parlato anche le maestre, quando ci dicevano che dovevamo lavarci le mani». Interessante, mi sono detta galvanizzata al pensiero di quante possibilità di minaccia e coercizione aprisse la parola epidemia. Ma perché la minaccia e il ricatto (insuperabili metodologie educative) siano efficaci occorre una base di paura e di ignoranza. E nel nostro caso il tema Corona Virus non suscitava né l’una né poteva contare sull’altra. A quanto pare, infatti, l’unica cosa rilevante durante l’intervallo sono i rapporti sociali.
«Le bambine di terza e le bambine di quinta dicono che noi abbiamo i pidocchi e quindi non possono stare con noi». L’isolamento sociale non le turba, prevale una sorta di sollievo per essere lasciate in pace da bambine tiranne, ma la madre che ha già combattuto la buona battaglia non ci sta. «Alle bambine che dicono così dite che i pidocchi si possono debellare, cosa che noi abbiamo fatto. Purtroppo invece la stupidità non può essere debellata. Poi mi fate un elenco di nomi e cognomi e vado a prendere i genitori uno ad uno».
Credo sia stato quello il momento in cui ho capito che il “fregatene e lasciali parlare” non poteva essere più accettato. Abbiamo sempre cercato di evitare i conflitti, siamo pacifisti e troppo pigri intellettualmente e fisicamente per qualunque tipo di guerra. Fino a che le creature non sono finite nella giungla. E noi genitori della casa sull’albero abbiamo scoperto il gusto del coltello tra i denti. Così ci siamo impegnate nel training, frasi semplici e ben chiare pronunciate con la sicurezza che sola può tenere a bada i seccatori. Poi un giorno la grande torna a casa interdetta. «Io e tizia abbiamo litigato. Le ho detto che è lei a dovere cambiare carattere, non io». Forse ho esagerato, pensi mentre cerchi capire come introdurre il tema della morbidezza e dell’importanza sociale del compromesso. «Mi ha detto che sua mamma ha ragione a dire che io sono strana». Sangue gelato. «Sarò strana, ma a me piace come sono». L’autostima, tesoro mio, è il miglior regalo che puoi fare a te stessa per San Valentino.

mercoledì 12 febbraio 2020

Mamma, ridi a bassa voce

Da Ticino7 del 7 febbraio 2020
In questo febbraio che comincia con Sanremo e finisce con il carnevale abbiamo a disposizione decine di progetti per renderci ridicoli agli occhi del mondo. Su tutti svetta il sempreverde “attrezziamo 90 metri quadrati come se fossero 200”, che questa estate ci vedrà impegnati in nuovi lavori in zona notte. I progetti vanno rivisti a breve per inventare magicamente spazio per armadio delle scarpe e baule delle borse e per evitare la crisi di nervi delle bambine comprando il loro consenso con una casa di Barbie grande poco meno della nostra. Abbiamo anche abbozzato un programma per le vacanze, che ovviamente ci vedrà impegnati nel concederci pochi giorni spezzettati in posti carissimi, sempre per quel solito saggio mantra: facciamo pochissime vacanze ma spendiamo come se ne facessimo dieci.
La settimana bianca, per dire, s’è conclusa da poco con l’opportuno cambio di denominazione in tre giorni bianchi. Abbiamo sciato come persone serie, trovandoci il mattino preso sulle piste. Bambine appena sopra il metro perfettamente equipaggiate per lanciarsi sulle piste nere ad esibire una sportività inspiegabile con la genetica. Di fronte alle creature non abbiamo fatto neppure una sosta ai bar a bordo pista per il classico Bombardino. Solo colazione proteica e via a sciare a rotta di collo fino a sera. In seggiovia si cantava, con padre che indicava i nomi delle cime e madre che faceva la stupida. E loro ridevano come pazze. È molto probabile che la cosa funzionerà ancora per qualche anno al massimo.
C’è questa situazione singolare, nelle famiglie, per cui solitamente quando i genitori iniziano ad entrare in una fase della vita che seppellisce i freni inibitori (e forse anche la dignità) i figli iniziano a vergognarsi di loro. Ricordo ancora quando nella monotonia del litorale adriatico si camminava con mia madre, ore con l’acqua fino alla vita per rassodare le chiappe e coprire i cuscinetti. Chiacchierando di tutto e di più lei agitava le braccia in grandi cerchi per fare esercizio e tentare di ottenere un avambraccio alla Michelle Obama. Io mi allontanavo, la pregavo di smettere perché qualcuno senz’altro da riva ci avrebbe riconosciute. E non importa se c’erano soltanto vecchietti in cerca delle vongole. Io dovevo pensare alla mia dignità e lei improvvisamente era un ostacolo insormontabile. Non importava che anni prima mi avesse aiutato a scendere dalla seggiovia, tirato per minuti interminabili con la racchetta a mo’ di skilift e preparato panini per la merenda facendo provviste nel buffet pantagruelico dell’hotel. Neanche che mi avesse aiutato a fare la cosa più difficile del mondo, ovvero scendere le scale del rifugio con gli scarponi (perché i bagni sono sempre e solo al piano di sotto) e liberarmi dalla morsa della tuta antivento e antifreddo per poter far, finalmente, la pipì in equilibrio precario.
D’un tratto iniziava a ridere troppo forte a essere troppo buffa e cretina. Il fatto che stesse simpaticissima alle mie amiche non faceva che peggiorare la situazione. Il tempo di una settimana bianca in versione ristretta e realizzi che sei dall’altra parte, anche se scendere le scale del rifugio con gli scarponi resta un’impresa al di sopra delle tue possibilità. È un periodo difficile. E per non scomodare cifre importanti vi dirò che è l’anno in cui abbiamo l’età che avevano i nostri genitori nelle foto con noi da piccoli. Quando ancora ci facevamo fare le foto con loro.

martedì 28 gennaio 2020

No, non si dimagrisce per la salute


Da Ticino7 del 24 gennaio 2020
Nel giorno in cui un “digital humanist” vi apparisse come collegamento LinkedIn potreste imbattervi, come è accaduto a qualcuno di mia conoscenza, in una foto della cantante Adele, notevole in quanto enormemente dimagrita. Divorziata da poco e mamma di un bimbo di sette anni, la talentuosa cantante avrebbe perso circa una trentina di kg grazie ad una dieta che prevede sport, no alcol, no zuccheri e soprattutto una combinazione di cibi particolare in grado di “attivare il gene della magrezza”. Prima di cerca su Google Maps il gene della magrezza e cliccare su “calcola percorso” vorrei che i miei quattro lettori si fermassero un momento per seguire alcuni ragionamenti che solo inizialmente parranno divagazioni, ma a un determinato punto del percorso appariranno nella loro indiscutibile e convincente chiarezza.
Cercando le foto di “Adele dimagrita” vedrete la circonferenza della vita, quella delle braccia, la possibilità (impensabile per un grasso) di incrociare le gambe con i polpacci sotto le cosce. Vedrete anche un seno non più prosperoso, delle guance smunte, un’espressione smarrita di chi non sa come dirigere un corpo improvvisamente ridotto a un terzo di quello precedente. Ascolterete qualcuno notare quanto fosse sorridente prima e quanto paia preoccupata adesso. Come a dire che prima pensava di addentarsi una mortazza e ora è schiacciata dalla mestizia della vellutata di finocchio.
A quel punto qualcuno vi farà notare che si può anche perdere il sorriso (perché i grassi sorridono sempre, probabilmente cantano svuotando la dispensa accompagnati da un nero con il senso del ritmo), se in ballo c’è la salute. La salute, sia ben chiaro, non la magrezza. Del resto i tabloid ci informano che la stessa Adele avrebbe deciso di rimettersi in forma per suo figlio, Angelo, che evidentemente merita una madre sana. Il fatto che questo coincida con una madre magra, signora mia, è solo un caso fortuito.
Eccola la contraddizione inaccettabile: se un’agenda per i risparmi di casa (ricorderete il Kakebo della settimana scorsa) può e deve prometterci la felicità, da una dieta non possiamo aspettarci nulla se non la salute. A questo punto la rubrichista, che casualmente è reduce dalla perdita di svariati kg e impegnata nel folle volo della prosecuzione per gli ultimi cinque maledetti che la separano dalla felicità eterna, sbotta e dà in escandescenze. Nessuna donna grassa o anche solo pingue ha il coraggio di dire che si è messa a dieta per muoversi con più disinvoltura sugli uomini che le interessano e per allacciare la zip dell’abito nuovo senza rischiare l’asfissia. Nessuna racconta della soddisfazione inenarrabile di portare al braccio la borsa che ci si è regalate al traguardo dei primi 10 kg persi.
La salute è una roba da maschi oppure per chi non ha il coraggio di rivelare quante materialissime e frivolissime soddisfazioni ci si possa prendere con dieci e dico dieci kg in meno. No, la dieta non si fa per stare bene con sé stesse. La dieta si fa per indossare cose sbracciate e strette in vita anche in inverno, tornando a casa con la polmonite pur di sentirsi chiedere: “Ma come hai fatto? Stai benissimo!”.