venerdì 25 settembre 2009

Fatte non foste a viver come pupe

Dal Giornale del Popolo del 25 settembre
Siamo rovinate dai titoli di studio che ci portiamo appresso, neanche dai documenti che certificano uno stazionamento più o meno prolungato in qualche liceo o corso universitario, piuttosto dall'avanzamento antropologico che ci si aspetta da noi. Avendo dilapidato parti del patrimonio dei nostri genitori per qualche dispendiosa università noi crediamo di dover dare in cambio qualcosa al mondo, per esempio un'immagine di noi stesse più urbana, non troglodita, non femminile nel senso più ammorbante del termine. Siamo donne moderne e abbiamo studiato, magari anche quisquiglie di comunicazione, perciò non abbiamo niente da temere se le vacanze sono separate o se i week-end si passano a centinaia di chilometri di distanza. Di più: noi abbiamo decine di amici uomini e maschi e non ci infastidisce minimamente che anche lui ne abbia decine di amiche donne e femmine. Abbiamo rinunciato alla parte selvatica di noi stesse, quella che difende se stessa e la sua famiglia con unghie affilate e acidità da vendere perché noi i nostri uomini li teniamo legati con l'intelligenza, il dialogo e soprattutto con la fiducia. Perché noi siamo comprensive. Capiamo così tanto le ragioni e la buona fede di lui che le abbiamo barattate con le nostre. Noi non facciamo scenate, perché diamo all'amato nostro tutta la libertà che pretendiamo per noi, l'accordo tacito è che il primo che si ingelosisce come farebbe un impiegato qualsiasi è un troglodita, e chissà magari è meglio perdere un fidanzato che il proprio status di persona culturalmente progredita. Però stasera quando tu tornerai tardissimo e lei sarà beata sul divano senza la minima intenzione di aprire neppure un surgelato non preoccuparti. La vendetta, quella, è rimasta troglodita.

venerdì 18 settembre 2009

Il telefono fisso

Dal Giornale del Popolo del 17 settembre
Eppure siamo cresciute con la pubblicità della Telecom, o come diavolo si chiamava allora. Culturalmente la tizia del “mi pensi, ma quanto mi pensi” presumibilmente al telefono con un fidanzato ci ha insegnato che parlare è bello e al telefono ancora di più. Soprattutto perché il sottofondo al “mi pensi ma quanto mi pensi” era il “ma quanto mi costi” borbottato da genitori inferociti. Gli stessi che ci facevano la ramanzina ogni giorno sul fatto che il telefono è fatto per comunicare e non per chiacchierare e tanto meno per farsi dettare la versione di greco al telefono, né farsi rassicurare sul bel tempo dalla vicina di casa che abita a un balcone di distanza e meno ancora (perché per quello non basterebbero telefonate di due ore ogni giorno) per farsi rassicurare sugli effettivi centimetri quadrati che occupiamo nei cuori dei ragazzi. Ogni volta che arrivava la bolletta erano dolori, liti, strigliate. Il telefono è tornato libero quando ce ne siamo andate di casa per cose inutili e sopravvalutate come l'università, il matrimonio, l'indipendenza. Nelle nostre nuove case, intanto, il telefono fisso è quasi scomparso a favore del cellulare. E va bene così finché non arriva qualcuno che ti butta là, ben sapendo che ti verrà l'orticaria, perché non ti prendi un telefono fisso o quanto meno facciamo una tariffa che ci permetta di chiacchierare la sera senza accendere un mutuo? Il telefono fisso e quella tariffa lì sono come i quadri alle pareti incorniciati: quando ce li avrò saprò di essere più vecchia, borghese e, soprattutto stabile. Potrei rischiare di smettere di immaginare che tra un mese me ne andrò per vivere di stenti e bighellonare per gallerie d'arte a New York. E a quel punto cosa avrei da raccontarti ancora al telefono?

martedì 15 settembre 2009

Nessuno può mettere Patrick in un angolo

Non è mai stata questione di muscoli né di movimento di bacino. E il paese reale che ha snobbato Berlusconi da Vespa per Italia Uno lo sa. Il motivo per cui Patrick Swayze ci ha segnato l'adolescenza è che alzando quella nanerottola adolescente a volo d'angelo sollevava tutte noi dal divano del disagio ormonale. Anni più tardi, a brufoli passati, avrebbe conservato lo stesso potere taumaturgico. Ti faceva sentire bellissima e forte con quel mix di sentimenti artefatti zuccherosi ed energizzanti che soltanto un film americano può produrre in dosi da automedicazione. Sì perché noi non abbiamo avuto bisogno di Ghost né di Point Break. A noi è sempre bastato Dirty Dancing, concentrato di lezioni che impartiremo con cura alle nostre figlie. Incentrato su una storia d'amore estiva, Dirty Dancing era scandaloso solo apparentemente per i balli strusciati e ammiccanti. La vera potenza culturale sta piuttosto nella istruttiva storia di una ragazza della borghesia progressista americana che in villeggiatura con la famiglia viene distratta dai propri tentativi di salvare il mondo dal notevole fondoschiena di un istruttore di ballo dell'albergo, povero, bello e ovviamente solo in apparenza burino e insensibile. Tutto finirà per il meglio e Baby capirà che la rivoluzione inizia in casa, avendo l'ardire di difendere il suo amore working class di fronte a tutti. Nel frattempo, musiche, balletti e battute da tramandare ai posteri. Da “questo è il mio spazio, quello e il tuo spazio”, significativo di una divisione del territorio impossibile a praticarsi quando si balla una storia di passione; fino al catartico “nessuno può mettere Baby in un angolo”, carico di un eroismo che prende il largo col Principe azzurro di Cenerentola e naufraga con gli uomini con cui litighiamo per il telecomando la sera. Oggi ricordando il suo personaggio più riuscito ricordiamo Patrick. Un uomo che il telecomando l'ha litigato con la stessa donna per 34 anni. E anche questo ci solleva dal divano.

venerdì 11 settembre 2009

Cuore di Anna

Dal Giornale del Popolo dell'11 settembre
Io e Anna Wintour abbiamo una cosa in comune. Non è la magrezza, neanche la sfilza di vestiti firmati da sfoggiare nelle occasioni mondane. Non è neppure l'indipendenza dalle calze: lei va in giro a gambe nude anche d'inverno non perché, come pensano i pettegoli invidiosi, girando in limousine non è obbligata a porsi il problema del freddo, ma perché sa che le calze sono poco chic (lo dice anche l'ultimo imperdibile libro-manuale di sopravvivenza di Carlo Rossella) ed essendo donna di polso e volontà ferrea soffre per quel per cui è giusto soffrire. Lei è la direttrice di Vogue America, governa un impero e lo fa senza paura. È stata l'ispiratrice di un film (Il diavolo veste Prada) che la dipingeva come l'essere senza misericordia che tanti dicono sia davvero. Il film era la trasposizione cinematografica dell'omonimo libro scritto da una sua ex collaboratrice, che si è vendicata scrivendone e dandole, se possibile, ancora più celebrità. Non bastava. Siccome non c'era bisogno di romanzare niente nella sua vita ora nelle sale sta per arrivare niente meno che un documentario. Oggetto: Anna Wintour e il numero di settembre di Vogue, tradizionalmente quello più importante e ricco di pubblicità. Una mossa di marketing per rianimare la moda ai tempi della crisi? Può essere. Noi lo guarderemo con attenzione. Senza temere nulla. Perché quella signora ha qualcosa in comune con noi. Non si perde una partita di Roger Federer. Pare che gli invii ogni tanto dei vestiti con un appunto: “Questo ti starebbe benissimo”. Non cede alle calze, probabilmente non ha mai visto un carboidrato, mai usato un mollettone per i capelli, mai sentito il sapore di una propria unghia. Ma di fronte al nostro Roger torna esattamente come noi. Una donna che non si vergogna di avere un cuore.

venerdì 4 settembre 2009

Sogno

Dal Giornale del Popolo del 4 settembre
Oggi al bar c'era un tizio seduto con una bellissima ventenne e a me è venuto in mente che erano le versioni cool di noi che ci ammorbavamo a vicenda tempo fa su lungomari ben più brutti e socialmente non spendibili. Lui aveva una camicia deltutto simile alla tua bianca che mi piaceva un sacco e nessun accenno di pancetta, lei aveva le gambe talmente lunghe da essere imparagonabile a me anche se avesse indossato gli stessi jeans no logo. Comunque mi ricordavano noi perché è settembre e a settembre chissenefrega della verosimiglianza, generalmente mi impelago in ricordi di sicuro utili a non prendere nota del tempestivo accorciamento delle giornate e del freddo che avanza. Sì perché io ho già ritirato fuori il golfino di lanetta e tu lo sai, che a me quell'aria sul collo dà fastidio e dal primo settembre mi sento autorizzata a farlo senza temere accuse di anzianità. Dicevo che ho ripensato a noi. E ti ho pure sognato. A dire il vero ho sognato un tizio che non ti somigliava affatto ma eri te, a dimostrazione del fatto che incarni un ideale di stronzo che ormai hai totalmente liberato dai tuoi connotati (quando si dice la valenza culturale di una storia). Che eri te lo capivo da certe cose che mi dicevi e che ora non ricordo più. Dal fatto che io me ne andavo ma ogni tanto mi giravo e tu eri lì con l'aria di aver tutto da fare tranne che volere me. Sempre nel sogno ho pensato a Freud (quando si dice la valenza onirica della cultura) e a cosa avrebbe detto di me che sognavo te che però non eri te e mi dicevi cose che non ricordavo. Nel sogno mi struggevo pensando che non basta non capire un cavolo delle cose che accadono ma bisogna pure affrontare l'inconscio e non c'è niente da fare prima o poi in analisi ci devo andare. Poi mi sono svegliata. E non c'eri. E questa è stata la parte più bella e verosimile della storia.