venerdì 30 maggio 2014

Abbiamo bisogno di Meriam

Dal Giornale del Popolo del 30 maggio
Fino a qualche giorno fa la storia della cristiana sudanese imprigionata incinta a motivo della sua fede secondo la sharia era finita in quel serbatoio di notizie terribili che scatenano riprovazione ma non toccano il cuore. C'è tanta di quella roba là fuori, sembra essere il ragionamento inconscio del nostro cervello implacabile come un algoritmo di Google, che qualcosa ci sfugge e non si può farsene una colpa se ogni tanto qualcosa finisce inavvertitamente nella cartella dello spam. Quindi è stato per puro caso che ho letto la storia oltre i titoli. Scoprendo che Meriam è più giovane di noi mamme consapevoli fan dei giochi di legno. A 27 anni ha partorito in una prigione sudanese dove bisogna pregare per rimanere vive e la peridurale non c'entra niente. Dall'infermeria tornerà presto in cella con la neonata e l'altro bimbo di venti mesi. Ho pensato a qualche giorno fa, quando su WhatsApp noialtre ci lamentavamo del senso di soffocamento dello stare in casa coi bimbi con il parco giochi fuori uso per la pioggia. Meriam ha due anni di tempo: il governo sudanese le usa la “delicatezza” di rimandare l'esecuzione della pena per permetterle di allattare la piccola. In ogni lunghissimo giorno di quei brevissimi due anni Meriam sarà la casa, la libertà, gli occhi, il gioco e il nutrimento dei suoi bambini. Abbiamo bisogno di non rimetterla nello spam, per credere che in uno strazio così asfissiante ci sia un amore così sconfinato. 



venerdì 23 maggio 2014

Amarsi per più di una settimana

Dal Giornale del Popolo del 23 maggio

Non è tanto il fatto che Claire Underwood dica di aver scelto un uomo che potesse «amare per più di una settimana». È il fatto che lo dica guardando il suo amante bello, idealista, viaggiatore, fotografo e pieno di braccialetti un attimo prima di tornare dal marito, un politico astuto e spietato, a cui ha dedicato la propria esistenza non meno cinica e innamorata del potere. Come ogni grande serie tv che si rispetti, anche House of cards accarezza in eguale misura la parte più romantica e quella più cinica di noialtri, incollati ormai agli intrighi che ruotano intorno alla signora Underwood e a suo marito Frank, deputato del congresso americano e presto vicepresidente, il cui motto inconfessabile è che la democrazia è enormemente sopravvalutata. In questa serie eccezionale non c'è distinzione tra buoni e cattivi, così la splendida Claire (una Robin Wright di eccezionale bellezza) si rivela ben presto non essere affatto l'alter ego buono del marito (un Kevin Spacey che inizierete a sognare di notte), ma, esattamente come lui, un impasto incredibile di ideali e bassezze, con le seconde nettamente maggioritarie sui primi in nome dell'ambizione. In quelle sere passate sul divano con gli Underwood vi sentirete alternativamente migliori, peggiori e pericolosamente identici a loro. E rischierete di passare in rassegna gli artistoidi idealisti cui concedeste il vostro cuore secoli fa, domandandovi se avrebbero mai potuto superare la regola della settimana di Claire Underwood.

giovedì 22 maggio 2014

Born to be unfamous

Dal Giornale del Popolo del 16 maggio

Ce la vedete Pippa Middleton a schiaffeggiare il principe William in ascensore all'uscita da un party, mentre Kate assiste immobile e sfodera un sorriso composto all'uscita, mentre i fotografi scattano e il maschio picchiato si accarezza attonito la guancia? E come reagirebbe Gisele Bundchen se la sua sorella gemella, certo non brutta, ma più bassa di lei di venti centimetri buoni, schiaffeggiasse il cognato giocatore di football? E se Cecilia Rodriguez si avventasse come una furia su Stefano De Martino sotto gli occhi di Belen? Ecco, per capire cosa sia successo davvero in quell'ascensore di New York tra Jay Z, marito di Beyoncé, e sua cognata Solange, non basta accertare la dinamica dei fatti (che pure ci terrà incollate per settimane ai migliori siti di gossip), ma bisogna scomodare tutta la psicologia da quattro soldi che conosciamo per analizzare il rapporto tra sorelle famose. Essere sorelle di, per una vita, non sarebbe male se non ci fosse la tortura della didascalia. Quella che specifica che siete gemelle, in una foto in cui tu e lei sembrate Stanlio e Ollio, e poi che sei vestita leggermente peggio di quel giorno in cui tua sorella sposava un principe e persino tu, per un giorno, sei sembrata bellissima a tutto il pianeta. O ancora quella che ti descrive come la sorella “unfamous”, come avviene in tutte le ultime immagini di Solange (sorella di Beyoncé). E spiegatemi se non prendereste a schiaffi il primo che capita, ma ancora più volentieri quello che la sorella perfetta l'ha persino sposata, scegliendo consapevolmente una condizione che a voi è stata imposta dal destino.

lunedì 12 maggio 2014

Il ritratto di famiglia

Dal Giornale del Popolo del 9 maggio

Siamo d'accordo che sarà un ritratto vecchio stile. Il nostro modo infinitamente snob di rispondere alla sbornia digitale che riempie le memorie dei nostri telefonini e svuota gli album fotografici. Certo, lo facciamo anche per dare una soddisfazione all'amico col pallino della fotografia. Verrà a studiare la luce per individuare il momento adatto e poi ci racconteremo che l'unica stanza disponibile è – guardacaso – la migliore. Speriamo che porti il cavalletto per darsi importanza e per darne a noi. Un ritratto di famiglia è una cosa seria, di quelle per cui si dovrebbe andare dal parrucchiere e farsi trovare in una forma fisica decente. Il giorno che decise di far fotografare i suoi tre figli mio nonno li caricò tutti sulla bicicletta. Dodici chilometri di strada e curve in salita per arrivare a uno studio dove il fotografo intimò ai bambini di guardare sempre dritto nell'obiettivo. Il risultato è una foto sensazionale, di quelle tipiche dei tempi in cui il bianco e nero era un condizione e non un filtro di Instagram, con la più grande che tiene in mano i piccoli e fissa il fotografo senza l'ombra di un sorriso. Sono passati anni da allora e ancora mia zia ricorda la concentrazione di quel giorno, convinta com'era che se avesse anche solo inclinato lo sguardo la macchina non avrebbe funzionato. Ecco spiegata la serietà che manterremo durante la lavorazione del nostro ritratto di famiglia. E nessuno pensi che stiamo trattenendo il respiro per ingannare l'obiettivo.

Il selfie di famiglia

Dal Giornale del Popolo del 2 maggio

Nel nostro pasquale c'erano mezzo metro di tovaglia, la faccia intera di mio padre, un occhio a testa mio e dei miei cugini e, se solo l'audio fosse un'opzione praticabile, avremmo avuto anche la voce della zia che grida “ciao ciao” nonostante i ripetuti tentativi di spiegarle in ogni modo che un selfie è una foto e non un filmino. Ora che l'autoscatto con cellulare, meglio noto – appunto - come selfie, ha fatto la sua comparsa anche nella provincia più profonda e nelle feste comandate possiamo aspettarci di tutto e soprattutto abbiamo una prova ulteriore e definitiva (se mai ce ne fosse stato bisogno) dell'estrema vanità del nostro tempo. Perché se il selfie pasquale in famiglia poteva giustificarsi come cartolina virtuale ai familiari assenti, quelli che ci facciamo tutti i giorni hanno il solo e unico scopo di confortare il nostro ego. In qualunque variante siano concepiti. Dal selfie con bimbo in braccio, a quello con invidiabile fisico post partum e occhiali da sole (vedi alla voce Melissa Satta) a quello, ormai passato alla storia, del parterre dei meglio attori di Hollywood durante la cerimonia degli Oscar, diventato in poche ore il tweet più condiviso della storia. Perché, insomma, se non è condiviso sui social che autoscatto è? E se dopo questa osservazione vostra madre deciderà di aprirsi un profilo Facebook sappiate che nulla la fermerà. Nemmeno l'accidentale caduta dello smartphone nel water.  

Are you ready for change?


Dal Giornale del Popolo del 25 aprile
Poteva essere tra un mese o tra un anno. Sapevamo che qualunque nuova canzone di Chris Martin sarebbe stata immediatamente collegata alla sua separazione da Gwyneth Paltrow. Perché va bene la teoria del lasciarsi senza coltello tra i denti, ma se a sposarsi sono un'attrice e un cantante la gente vuole ciò per cui ha pagato il biglietto: almeno uno straccio di verso di canzone in cui scorgere il riflesso della rottura, assaporare il gusto salato delle lacrime dei vip con lo sguardo perso nel vuoto a pensare quanto sia maledettamente musicabile l'infelicità sentimentale. Teorie antropologiche a parte, la nuova canzone dei Coldplay è arrivata e siccome è un po' lagnosetta e cantata da un frontman fresco di uncoupling noi abbiamo deciso che serve a cantare il suo struggimento e dunque anche tutti i nostri eventuali (struggimenti). Importa poco che di vagamente riconducibile alle vicende autobiografiche ci sia giusto un “I am ready for change”: sono pronto per il cambiamento. Le voci incontrollate dopo la separazione dicevano che lui non sopportava più le manie alimentari salutiste della moglie, determinata a non far mangiare carboidrati ai figli, dispensatrice di una Coca Cola a settimana e fiera di concedere un biscotto Oreo ogni tanto come prova della propria magnanimità. Intanto abbiamo saputo che probabilmente ad ascoltare la canzone ci sarà anche Valeria Marini, in via di separazione a meno di un anno da un matrimonio fiabesco, tutto veli, strascichi, abito bianco e invitati vip. E noi non sappiamo se siamo pronti per il cambiamento.