domenica 26 novembre 2017

Black Friday, ognuno ha i sindacati che si merita

Dal Giornale del Popolo del 24 novembre
Brividi, occhi lucidi, ossa rotte e l’unico desiderio di dormire per un numero indefinito di ore. Parenti e familiari cercano di importi quel riposo che non concedono mai a se stessi e tu, stoica o folle, vai al lavoro ugualmente. Pensano che tu sia devota al lavoro e non ricordano, invece, che stare male da adulti è una tortura, soprattutto se non c’è nessuno in casa che possa prendersi cura di te. Qualcuno, si intende, la cui statura superi il metro. Presto tornerò a casa e farò quello che cerco di evitare tutte le sere: tv accesa, pongo a ruota libera sul tavolo senza tovaglia, biscotti dopo cena e nessun tentativo di imporre la più salutare mela. Le creature allo stato brado cercheranno di verificare il mio stato di salute con il termometro della dottoressa peluche e di pettinarmi nel migliore dei modi perché una folle gli ha insegnato che è buona norma essere ordinati anche in casa. Abdicherò ad ogni tentativo di serata educativa e non proporrò né il memory né la tombola degli animali. Spalmate davanti alla televisione affonderemo sotto le coperte prima di addormentarci come tre ragazze sfinite e distrutte. Dita nel naso e pasti consumati con le mani anziché con le forchette non saranno sanzionati. Non avrò le forze per resistere al picchetto sindacale, che da giorni ha costruito due cartelli (uno attaccato alla scopa e uno allo scopone) che riportano le leggi del paese: “Si mangiano con le mani i viuster” (scritto proprio così) e “si mettono le dita nel naso”. Hanno vinto. E anche noi abbiamo il nostro caso sindacale da associare al Black Friday.


Noi, che i libri non li finiamo e li giudichiamo dal numero di pagine

Dal Giornale del Popolo del 10 novembre
“Ragguagliare non è leggere. Anzi, è l’esatto contrario. Il ragguaglio è succinto, concreto e pertinente. La lettura è disordinata, dispersiva e sempre invitante. Il ragguaglio esaurisce la questione, la lettura la apre”. Il bello di avere la memoria di un pesce rosso è che rileggere dei libri per la pura casualità di averli a portata di mano durante un viaggio significa scoprirli di nuovo. Insomma, non è mai troppo tardi per capire che il miglior rimedio alla scomodità cronica di un volo RyaAir è La sovrana lettrice di Alan Bennet, rifugio aristocratico benedetto quando sei circondata da inviti ad acquistare per pochi euro profumi, Kinder Bueno, bevande calde e fredde e gratta e vinci. C’è un mondo in cui i libri si leggono per dovere, qualcuno cerca mestieri che gli consentano di leggere continuamente, qualcuno legge per passare il tempo, qualcuno dice di non averne abbastanza, qualcuno si addormenta con il libro in mano alla seconda pagina. Qualcuno, infine, attraversa queste fasi a periodi alterni. Il preambolo serve a confortare tutti coloro che si svegliano un giorno e scoprono di essere diventati una di quelle persone che chiedono “quante pagine ha” a chi gli consiglia un libro. Giustamente si cerca una giustificazione culturale alla propria cialtroneria, spiegando che decine di pagine inutili se le può permettere solo Dostoevskij, che rivendichiamo il diritto di scegliere cosa leggere e soprattutto il diritto a non finire i libri. Rivendichiamo il diritto di cambiare. Con la segreta speranza di farlo davvero, un giorno.


Domande esistenziali

Dal Giornale del Popolo del 27 ottobre
Gli aperitivi con le amiche, specie quelle che non si vedono da troppo tempo, sono occasioni di epifanie alcoliche e domande esistenziali che vanno dal “dove hai preso quella borsa” al “perché continui a lavorare?”. Nessuno ti chiede perché ti lavi i capelli quando sono sporchi eppure tutti si sentono liberi di chiederti perché continui a lavorare o, peggio, perché non ti sei ancora inventata il lavoro che dia libero sfogo alla tua creatività e che (eccolo, il sacro Graal) ti permetta di gestire il tuo tempo con più libertà. Hai un residuo di pudore e dunque non tiri fuori il tema della realizzazione personale, di cui peraltro non ti interessa granché. Cominci a spiegare, perché sei pure sempre una personalità cinico-ironica con spiccata tendenza all’autocommiserazione e al pessimismo, che il lavoro flessibile non esiste. Che l’espressione imprenditrice di se stessi ti fa venire voglia di uccidere e che ti consideri enormemente fortunata a disporre di capi a cui poter addossare le colpe di ogni tua frustrazione lavorativa e organizzativa. Che il tema dell’invadenza del lavoro (così scarso oggi eppure così pervasivo nelle nostre vite) non è legato alla tipologia di lavoro ma, semmai, al nostro approccio al lavoro. Nessuno ha mai chiesto a mia nonna perché facesse la parrucchiera di giorno e la sarta di notte e nessuno si è mai preoccupato che non ce la facesse. Il mantra “si stava meglio quando si stava peggio” non mi appartiene e dunque credo che queste domande, esistenziali o alcoliche che siano, ci facciano bene. Ci mettono davanti alle nostre motivazioni, ai nostri desideri. Così ho guardato in faccia le mie amiche e ho detto la verità: lavoro per pagarmi borse che non posso comunque permettermi. E per sottrarre tempo (ma non risorse) alla mia tendenza allo shopping compulsivo.

Le fiabe di ieri, sono gli studi di oggi

Dal Giornale del Popolo del 20 ottobre
Dal cioccolato che fa dimagrire, passando per la ginnastica mentale che fa crescere i muscoli, fino allo studio che certifica che i figli delle mamme che lavorano sono più bravi a scuola. La funzione palliativa e rassicurante che nell’infanzia veniva ricoperta dalle fiabe che ci raccontavano gli adulti, oggi – che siamo noi adulti – viene sostituita dagli studi o dalle mirabolanti ricerche scientifiche con cui cerchiamo di sentirci meno in colpa mentre ingolliamo del cioccolato, tiriamo tardi in ufficio mentre i bambini (intelligentissimi) sono a casa e rimandiamo all’ennesimo domani la prossima sessione di corsa. Sono bugie a cui abbiamo bisogno di credere e lo facciamo con trasporto. Perché intanto, a casa, i bambini intelligentissimi stanno pensando a come fregarci. Arriviamo con le lacrime agli occhi dalla stanchezza, loro ci rimangono male. “Sai, avrei voluto piangere al lavoro ma non potevo, allora piango a casa”. “Bè, potevi piangere in macchina”, chiude la bambina rendendo necessario uno studio sul tasso di cinismo nei figli delle madri che lavorano. Genitori o nipoti che siamo non importa: le creature ci fregano sempre. Il nipote dodicenne ascoltava lo zio parlare della misericordia di Papa Francesco e della contrarietà alla pena di morte nel catechismo. Qualche ora dopo il nipote va dallo zio, con la faccia crucciata. È preoccupatissimo e lo zio spiega, con pazienza, quello che stava raccontando poco prima. «Oh, per fortuna: credevo che il Papa avesse stabilito la pena di morte per chi non va al catechismo!».