giovedì 3 dicembre 2015

Quei compleanni di pomeriggio

Dal Giornale del Popolo del 27 novembre

Abbiamo ignorato quelle che cadevano nei weekend e nei ponti, bocciate senza neanche essere sottoposte alla corte, perché nessun uomo (e nessuna donna) potrebbe liberamente decidere dopo una settimana di fatiche di passare un sabato pomeriggio ad un compleanno cui hanno aderito “già quaranta bambini”. Abbiamo cestinato a cuor leggero già decine di inviti da quando la bambina frequenta l'asilo, per cui non può che essere stato il destino a farci ritrovare quel cartoncino decorato con l'eroina di Frozen che la coscienza aveva ignorato fino a quel momento. Facendoci forza abbiamo deciso di accettare l'invito: in fondo ci sono modi peggiori per impiegare un pomeriggio lavorativo. È in occasioni come queste che ti senti, forse per la prima volta, davvero titolare di una enorme responsabilità. Alla festa, tra bambini che fanno la guerra coi palloncini, si possono infatti fare molte cose. Si può deplorare l'assenza di un prosecco rifocillatore per gli adulti. Si può buttarsi sui panini al salame e sacrificarsi a finire il cupcake lasciato a metà dalle creature. Ma niente vi risparmierà l'incombenza del momento più difficile, quello in cui si aprono i regali e la platea di bambini fa un verso di approvazione o disapprovazione davanti ad ogni pacchetto. E tu resti lì, in attesa di un verdetto che potrebbe determinare la popolarità della tua creatura in mezzo alle compagne di classe con i capelli lunghi e perfetti. E fino all'ultimo non sai se hai fatto bene a puntare sul gioco educativo, sul gioco popolare, o sul gioco in scatola riciclato dal Natale scorso.

martedì 24 novembre 2015

Paura

Dal Giornale del Popolo del 20 novembre

«Volevo chiamarti, ma poi, sai, con questa cosa del terrorismo...». «Temevi mi fossi arruolata nell'Isis?». È iniziata così la conversazione via WhatsApp di questa mattina con una mia vecchia amica. Abbiamo riso, scherzato, ho preso in giro la sua paura come faccio da sempre da quando ci conosciamo. Ho cercato di farle capire che il non telefonare alle amiche non ha nulla a che fare con l'orrore che ha devastato Parigi e sconvolto le nostre vite. Ho sorriso di fronte a uno dei classici ragionamenti illogici della mia cara amica. E poi, ore dopo, ci ho ripensato. Ci ho ripensato perché un'altra amica mi ha consigliato un negozio di giocattoli a Milano «ottimo per i regali di Natale e poi, vantaggio non da poco, è lontano dal Duomo». Segue sorriso, della serie “sto scherzando ma non troppo”, soprattutto dopo che l'FBI ha reso noto che in Italia Milano e Roma sono target potenziali del terrorismo dell'Isis. La sera prima un'altra amica confidava di essere intenzionata a vendere il suo biglietto per il concerto di Jovanotti. In tutti i casi ho recitato la parte della più ragionevole e pragmatica (poveri noi), dicendo che a livello di probabilità è sicuramente più pericoloso camminare per strada che visitare potenziali obiettivi sensibili. Ho fatto la superiore,  esibendo una ragionevolezza che per quanto sacrosanta non è sufficiente a metterci il cuore in pace. Il nostro cuore, in pace, dopo quel 13 novembre, non sarà mai. Il coraggio che ci facciamo non può prescindere da quella domanda fatta dalla bambina di 3 anni il sabato mattina: «Ho capito, mi hai detto che sono cattivi. Ma perché?»

C'è una sola cosa che le mamme a km zero temono più dell'olio di palma...

Dal Giornale del Popolo del 13 novembre

C'è una sola cosa che le mamme di oggi temono più dell'olio di palma, più della carne rossa, più dei conservanti e del cibo non a km zero: i pidocchi. Il caso di pedicolusi («sa, usiamo questo termine per evitare il panico») segnalato all'asilo innesca un super Cluedo in cui l'arma del delitto è sempre e solo un pettine a denti finissimi usato per scandagliare la cute della creatura. «Secondo te chi è? Il bambino coi pidocchi, dico, secondo te chi è?». Già perché le maestre sono discrete e delicate nel segnalare i casi incresciosi (pidocchi, vermi e altre schifezze che infestano le chat di WhatsApp di povere donne che stavano tranquillamente usando lo smartphone per scegliere un cappotto di Max Mara che non possono permettersi). Ma la politica di dire il peccato ma non il peccatore (e dunque di rivelare la malattia ma non l'untore) non regge nel gruppo, eterogeneo, spietato e pericolosissimo, delle madri. Perché loro, le madri, l'avevano vista la bambina con quelle unghie nere, troppo sporche anche un per un piccolo di tre anni che ha scoperto il pennarelli. Per non parlare dei capelli lunghi. In caso di pidocchi le bambine coi capelli lunghi e magari pure arruffati sono tenute a distanza e giudicate. «Perché i capelli lunghi sono un impegno e se tu, mamma, sai che non puoi starci dietro, allora rasala a zero», sibilano. Non hanno pietà; sono implacabili. Quindi se dovete comprare una lozione per i pidocchi o un medicinale dall'eloquente nome di Vermox, indossate cappello e barba finta e andata nella farmacia più lontana possibile dall'asilo.

giovedì 12 novembre 2015

Una lavatrice per tutti

Dal Giornale del Popolo del 6 novembre

Come il più classico dei sondaggi, anche quello di Homegate.ch dedicato alla svizzerissima abitudine di avere una lavatrice condominiale è servito a rassicurarci. A farci rendere conto che rientriamo in qualche interessante percentuale di un'indagine che non ci ha rivelato nulla ma ci ha fatto divertire molto. Come raccontava lo stesso GdP, il sondaggio serviva a capire se la famosa abitudine della lavatrice condominiale accendesse ancora gli animi tra i vicini di casa. Il 75% degli intervistati si diceva soddisfatto del proprio piano di lavaggio, ma una buona metà degli utenti rivelava comunque di covare un tantino di rabbia nei confronti dei condomini. A questo proposito: io credo che in quell'appartamento, quello in cui siamo diventati grandi e amiche da universitarie, di noi si ricordino ancora. Delle ragazze con il turno di lavanderia la domenica, precisissime nei turni e però sfortunatissime perché la lavatrice finiva sempre per bloccarsi. Tutti a domandarsi come mai fino al giorno dopo, quando il tecnico chiamato a risolvere il mistero entrava nel seminterrato e ne usciva con la prova del delitto analizzata come in una puntata di CSI: un ferretto di reggiseno che qualcuna si era dimenticata di inserire in apposita retina anti fuoriuscita. Bastava un'occhiata al reperto per riconoscere al volo la colpevole. E il resto della settimana serviva a placare gli animi dei vicini di casa.

Il rancore è cancerogeno

Dal Giornale del Popolo del 30 ottobre

Non ho visto le immagini dall'elicottero. Non ho visto neanche le ultime, quelle riprese dalla moto. Non ho visto tutta la sequenza, “frame by frame”, come ci aveva detto di fare Valentino, del duello che ci ha appassionato e scaldato quasi quanto quello dell'Oms contro la carne rossa. Io so solo quello che una donna ignorante e fedele deve sapere: Valentino ha spiegato di non aver fatto nulla di male e io gli credo. Gli credo perché è l'unico rappresentante di un qualche sport che seguo con incostanza ma con assoluta sincerità insieme a Roger Federer. Gli credo perché lo invidio fino ad ammirarlo, perché abbiamo la stessa età e siamo nati a una manciata di chilometri di distanza e io sono orgogliosa di lui. Quindi per me ha ragione lui, in tutto e per tutto, ma questo non gli restituirà giustizia né il mondiale. Non so cosa succederà alla prossima gara. Ma so cosa vorrei che succedesse quando le ingiustizie e le sofferenze toccano a noi. Vorremmo che tanti tifassero per noi. Vorremmo una solida schiera di fan che ci dicano il loro affetto e il loro bene anche nella maniera più superficiale e stupida, con un like su Facebook o un hashtag dedicato. Vorremmo che il bene trionfasse e che, nell'ultimo giorno utile, qualcuno ci mettesse una mano sulla spalla e ci dicesse che va tutto bene. Non so se questo succederà, non so se all'ultima gara della stagione gli altri piloti o il destino possano fare qualcosa per cambiare le sorti del mondiale del nostro campione. Però so che sarebbe bello prenderla con sportività e uscire di scena senza piangere e senza paura del futuro; con il cuore intatto e contento. Perché il rancore, quello, conservanti o no, è cancerogeno.

Amarsi è chiedere: «Tesoro, che ore sono?»

Dal Giornale del Popolo del 23 ottobre

“Le coppie felici non si gettano i problemi addosso usando il proprio partner come valvola di sfogo. La cosa migliore è parlarsi chiaramente, iniziando, ad esempio, con un: "Vorrei condividere questo con te".  Cominciate a seguire uno dei consigli di felicità di coppia del sito americano yourtango.com condividendo con il vostro partner lo smarrimento per il cambio dell’ora. Domani sera andrete a dormire e in quel momento, prima di dare un’ultima occhiata allo smartphone per non perdervi gli ultimi aggiornamenti social dei vicini di casa, giratevi dalla sua parte: “Allora? Un’ora indietro o un’ora avanti?” Ricomincia la discussione, quella che avete tutti gli anni, la stessa che avete avuto stamattina con i colleghi in ufficio. “Ragiona, è semplice: con un’ora indietro, domani a quest’ora che ore saranno? E domattina a quest’ora che ore saranno rispetto a ieri? I toni sono gli stessi di quando i compagni di classe del liceo cercavano di spiegarvi teoremi e leggi fisiche nei pomeriggi di studio: “Se ho dieci pere e due mele quanta polpa mi rimarrà dopo aver tolto la buccia, se ogni buccia occupa il 3 per cento della superficie di ciascun frutto?”. Gettate il telefono, sradicate il piumone dal letto e urlate anche se rischiate di svegliare tutto il palazzo: “Non voglio capire niente, voglio soltanto sapere se devo mettere la lancetta dell’orologio del telefono avanti o indietro!” Lui vi guarderà freddamente: “Lo smartphone fa tutto da solo: lui sì che capisce cosa deve fare”.

Dirty Dancing insegna: certi salti si fanno solo nelle braccia giuste

Dal Giornale del Popolo del 16 ottobre

«I don’t know how all these people who re-enact it have the guts to throw themselves into the arms of anyone other than Patrick Swayze. It’s insane!». Come ogni grande classico che si rispetti anche Dirty Dancing rivela il suo valore ai posteri man mano che il tempo passa. Qualche giorno fa la protagonista del film che ha segnato le nostre adolescenze è stata intervistata dal Guardian e non ha potuto sottrarsi a una domanda sul grande classico. Non solo non si è sottratta ma si è detta fiera e orgogliosa di essere ricordata come la ragazza che nessuno può mettere in un angolo e quella che si presenta alla festa imbarazzata e fuori posto, dicendo “ho portato il cocomero”. Al giornalista che le chiedeva se avesse mai più ripetuto la famosa scena del salto (la presa, diremmo oggi dopo anni di Amici) ha risposto con le parole riportate all’inizio di questa rubrica: «Non so come facciano tutte quelle persone che la rimettono in scena e hanno il coraggio di buttarsi nelle braccia di qualcuno che non sia Patrick Swayze. È da pazzi». E così, nell’esegesi mai completa di Dirty Dancing si aggiunge il passaggio a cui forse non avevamo mai pensato così tanto, quello che ci ha segnato senza saperlo in tutte le scelte future. Certi salti si fanno solo nelle braccia giuste.

domenica 11 ottobre 2015

Quelli che fondano start up e quelli che sognano scrivanie

Dal Giornale del Popolo del 9 ottobre

Tizio se n’è andato. Chi resta, nell’ufficio grigio, racconta che ha mollato tutto per fondare una start up. Gli impiegati guardano quelli che hanno preso il volo con gli occhi sognanti e l’immaginazione che galoppa. Si figurano uffici piccoli ma abitati dal design, palestre di creatività, flessibilità lavorativa, il brivido di chi mette in pratica la propria idea sperando ardentemente che sia quella giusta. L’azzardo di essere capi di se stessi e, in qualche caso, anche di altri. In un attimo si passa a far parte della tribù di quelli che gestiscono il proprio tempo, che lavorano da casa e lo raccontano come chi ha trovato l’America nella liberazione dagli orari d’ufficio. Dicono che in questi anni di crisi, cambiamenti, internet, rivoluzione digitale e varietà 2.0, la strada sia questa: tenere aperte sempre tante porte, non fermarsi mai e morettianamente, fare cose, vedere gente. Quelli che il tempo non vogliono per niente organizzarlo, ma solo occuparlo, rimangono nel paleolitico. Quelli che vorrebbero una scrivania, un ufficio, e non si rassegnano al fatto che iniziare a lavorare significhi aprire il computer e sedersi al tavolo da pranzo. Temono che le lunghe sessioni di ricerca di buone idee per emettere fattura li portino solo a guadagnare in massa grassa. Temono una marea di cose. Però in questi giorni di cambio dell’armadio, in questi giorni in cui hanno scosso la testa di fronte ad abiti meravigliosi che non si meritavano un’estate così breve, hanno capito che non hanno un guardaroba da disoccupati. E questo, capirete, è un passo importante.

giovedì 8 ottobre 2015

Le mamme senza cognome

Dal Giornale del Popolo del 2 ottobre

La mamma di Federico è bellissima, alta e ordinata anche se porta due figli a scuola e uno nella pancia. La mamma di Camilla ha molte conoscenze di pedagogia e psicologia dell'infanzia. La mamma di Giuseppe non perde la pazienza davanti all'armadietto che suo figlio utilizza come una tana per nascondersi e perdere minuti di tempo infinitamente preziosi la mattina presto. La mamma di Giulia non dice parole sconvenienti e non guarda l'orologio ogni trenta secondi come se agitarsi potesse servire a rallentare il tempo. La mamma di quelle belle bambine che non conosciamo chiede alle maestre di fornire alle famiglie anche il prospetto annuale delle merende pomeridiane, così da potersi regolare nella compilazione del quadro nutrizionale dei suoi figli. La mamma di Giorgia, adesso che è in maternità, sarebbe felice di dedicare un po' del suo tempo libero alle incombenze del rappresentante dei genitori della classe rossa dell'asilo. Nel suo programma elettorale c'è la promessa di una dedizione che si concretizza con la creazione di un gruppo di WhatsApp per velocizzare e “ringiovanire” le comunicazioni tra genitori. Il giorno in cui ci sarà la recita di Natale o l'epidemia di pidocchi lo sapremo in tempo reale, così da inserire nel calendario e nei promemoria le procedure di emergenza da attivare. Le altre mamme sono molto interessate ai corsi facoltativi di inglese, musica e pittura: vogliono conoscere al più presto il calendario delle lezioni per essere sicure che non si sovrappongano con le sessioni di danza, nuoto e violino delle proprie creature. Alcune mamme sono molto impegnate, altre non riescono a far altro che parare i colpi. Ma tutte hanno una po' di nostalgia dei tempi in cui nei gruppi si WhatsApp avevano un nome e un cognome.

domenica 27 settembre 2015

Venghino signori venghino: siamo tutti sul mercato

Dal Giornale del Popolo del 25 settembre

Al peggior colloquio della mia vita mi hanno chiesto come immaginavo di lì a dieci anni. La risposta era il corrispettivo lavorativo di alta e magra. Inutile che racconti come è andata a finire. Da allora non ho imparato molto. Alcuni di noi non sono bravi a vendersi. Non saprebbero condurre una televendita in cui battere i pugni sul tavolo e alzare la voce per dire che sì, signori, il prodotto migliore al mondo, quello che vi consentirà di fare il lavoro che prima facevano due persone, spendendo la metà, il prodotto magico come quegli stracci che non prendono mai fuoco pubblicizzati alle fiere di paese, è proprio qui davanti a voi. Provate per credere e se non vi piace restituirete il prodotto e ne troverete subito uno nuovo. Divagazioni retoriche a parte, è così. Cercare un lavoro, “guardarsi intorno” come dicono quelli che ne sanno e che hanno profili LinkedIn di provata efficacia, significa vendersi, proporsi. “Nessuno ti verrà mai a cercare”, dice il romantico poeta che mi si addormenta a fianco sul divano ultimamente; pensando così di spronarmi, senza sapere che il mondo si divide tra quelle che mettono i tacchi e vanno in giro scollate per farsi notare e quelle che si ostinano a vestirsi in maniera ricercata, convinte che valga la pena attrarre solo sguardi in grado di dedicare attenzione a chi non si sbraccia per ottenerla. Ecco alcune di noi non si sbracciano. Non sudiamo per dimagrire, figurarsi se lo facciamo per lavorare; di certo è un obiettivo meno interessante e meno urgente. Pensavo di stare divagando troppo in questa analogia improbabile tra seduzione e ricerca del lavoro. Poi è arrivato quel colloquio inaspettato. Quello in cui mi hanno chiesto: e tu, che tipo di donna sei?

giovedì 24 settembre 2015

Se Peter Pan è il nostro uomo ideale

Dal Giornale del Popolo del 18 settembre

Quelle come noi di Peter Pan ricordavano solo la sindrome, di solito per averla diagnosticata in qualche maschio a cui era meglio riconoscere una patologia piuttosto che un effettivo disinteresse per noialtre. Poi arriva il giorno in cui lo incontrano le nostre figlie; e ci tocca constatare che anche nella fiaba di Walt Disney il ragazzino vestito di verde ha le medesime caratteristiche dei suoi simili maschi adulti. Sfuggente, ambiguo, spiritoso, perennemente in volo tra sirene, principesse indiane, fate e ragazzine di buona famiglia. Le bambine dicono che è il suo essere furbo ed agile ad attrarle. Noi presunti adulti, costretti a interminabili sessioni di lettura della fiaba e sottoposti a richieste continue di visione del cartone di Walt Disney, ci domandiamo se la fiaba abbia creato un genere o se l'abbia soltanto reso famoso. Discutiamo della preferenza per Trilly o Wendy, e inevitabilmente scegliamo la prima ma le mamme di maschi sperano che i figli incontrino tipologie di donne più simili alla seconda. E poi ricordiamo che tutti nella vita prima o poi incontriamo dei Capitan Uncino, pirati cattivi e buffoni nel loro essere senza scrupoli e bisognosi della compagnia di nostromi signorsì. E allora torna utile Peter Pan; per ricordare che con molta agilità e fantasia si può volare via dalle situazioni peggiori. E lasciare che i pirati vadano alla deriva.

Le maestre che ricorderemo

Dal Giornale del Popolo dell'11 settembre

La maestra Carmen aveva gli occhiali, i capelli corti, un décolleté da tabaccaia di Fellini e dei braccialetti che tintinnavano meravigliosamente mentre lei, seduta alla cattedra, disegnava principesse che noi bambine potessimo colorare. Dell'asilo ricordo questi fermo immagine insieme a quello di me stessa davanti alla scatola dei Lego che tento invano di ricordare al bambino che l'anno precedente ci eravamo fidanzati. Delle elementari ricordo la maestra Pia con il grembiule azzurro, le scarpe da signora anziana, i capelli grigi e le unghie così pulite da far sembrare noi bambini intenti a colorare degli emeriti zozzoni. Lei era l'ordine e la disciplina più rigide e la scuola era grigiore fino al mercoledì, quando entrava la maestra Paola a insegnare educazione all'immagine. Era così giovane che mi pareva bellissima anche se a ripensarci aveva un naso esageratamente lungo. Eppure le ho scritto per tanti anni una volta finite le elementari. In fondo tutti i nostri ricordi di infanzia sono legati a figure come queste. E oggi, che all'asilo ci vanno delle bimbe che fino a tre anni fa non immaginavamo neanche potessero esistere nelle nostre vite, ci domandiamo che cosa ricorderanno domani delle loro maestre. "Di che colore ha i capelli la mia maestra?" "Biondi, cara" "Oh biondi che bello". Non resta che sperare che la maestra bionda la affascini quanto la cantante di piano bar, che nell'ultimo Ferragosto l'ha letteralmente rapita con il suo fascino da ugola di provincia: "Mamma mi piace, mi piace perché canta ed ha i capelli lunghi".

giovedì 10 settembre 2015

Dirsi addio e ricominciare

Dal Giornale del Popolo del 4 settembre

La nuova gravidanza di Kim Kardashian, quella della Canalis e poi quella della nostra amica incredibilmente più in forma di tutte noi a un mese dal parto: per il raduno di fine estate di argomenti all'ordine del giorno ne avevamo parecchi. Non ultimo il giudizio insindacabile da emettere sull'estate social delle amiche. Poi prima ancora dello Spritz è arrivata la botta: è finita. Meno di un anno fa eravamo qui a festeggiare la nascita della bambina , un paio d'anni fa il matrimonio. Poi lui una mattina arriva e dice non ti amo più, sai, le storie finiscono. Avremmo dovuto parlare di Ben Affleck che si è tolto la fede dopo la separazione da Jennifer Garner e invece siamo qui ad avere un sacco di tempo per restare senza parole. Perché siamo gente di mondo e sappiamo che può succedere a chiunque ma non ci diamo pace che una cosa del genere succeda alla nostra amica. Ci crediamo invincibili, titolari di amori più forti di ogni cosa. Oppure cinici, di quelli che non si impegnerebbero mai proprio per evitare questi “inconvenienti”. E sono due modi di difendersi e ritenersi impermeabili a un fallimento. Fallimento. Non sappiamo cosa sarà e, anzi, questi saranno mesi cruciali per decidere cosa sarà; ma quella è l’unica parola che non si può pronunciare. Perché dove c’è stato e c’è tutto questo, dove ci sono le tracce di questo amore e di una bambina, non si potrà mai parlare di fallimento. Adesso bisogna ricominciare. Ma non da zero. 

Intolleranti agli allergici

Dal GdP del 28 agosto

Nel girone degli allergici, io, non ci ero mai stata. A casa mia l'unica fragilità conosciuta era quella della mia pelle candida, che si ustionava al sole ogni anno. Per il resto la mitologia familiare racconta di mia sorella che da neonata si svegliava cantando e crescendo mangiava di tutto, come me del resto. Siamo venute grandi in un momento in cui le intolleranze non erano di moda e abbiamo geni estranei al fenomeno dell'allergia. Mio padre è ancora convinto che la vita sana e l'aria del paese siano una seria terapia contro ogni tipo di malattia: racconta ancora con soddisfazione l'episodio mitologico di quella volta che una spina di pesce gli rimase nella gola per giorni. In nessun modo riusciva a toglierla, poi il giorno prima di tentare all'ospedale uscì per il suo solito giro di 80 kim in bici di corsa: «Sono tornato e la spina non c'era più!». Il mio pedigree genetico allergicamente a prova di bomba mi rende ancora più disorientata in questo mondo fatto di antistaminici, starnuti, dermatiti allergiche, polveri viste come il demonio e pollini temuti con settimane di anticipo. Il giorno in cui la bambina ha vomitato i cappelletti della zia, perché pieni di uova e formaggio a cui poi si è scoperta allergica, abbiamo provato la nostra prima, enorme, delusione. Ora ci manca solo che da grande diventi vegetariana.

Bentornati

Dal Giornale del Popolo del 21 agosto


Tornare talmente presto da aver subito voglia di ripartire. Esultare per i complimenti all'abbronzatura. Constatare che le piante stanno immensamente meglio se a curarle è la vicina di casa. Essere tentati da diversi selfie con lentiggini per avere prove documentali di felicità (ed esistenza di melanina) da esibire durante l'inverno. Fare quattro lavatrici in meno di 24 ore. Riporre infradito e parei con più di una lacrima. Ricominciare a mettere la canottiera perché -che sia un effetto psicologico o no - alla scrivania fa sempre più freddo. Posticipare tagli di capelli per tenersi il più possibile quelle punte schiarite perfettamente dal sole. Concedersi qualche giorno di vestiti bianchi come se si fosse ancora coi piedi sulla sabbia. Abituarsi a dormire senza il rumore del mare. Smaltire 25 della 75 email non lette in questo tempo. Combattere l'odore dell'ufficio con quello dell'ultimo profumo di Dior. Fare la spesa e ricominciare a sentirsi a dieta. Commentare con le amiche le foto delle vacanze degli altri e spettegolare sui tag che ufficializzano le relazioni. E poi sorridere sorridere sorridere: perché non c'è modo migliore per perpetuare lo spirito delle vacanze che portarsi in faccia un po' di quel sole che ci siamo goduti fino a ieri. Bentornati.

Le vacanze degli altri su Facebook

Dal Giornale del Popolo del 14 agosto

Ci sono quelli che si godono il mare selvaggio dei Balcani coi sandali di cuoio ai piedi e l'iPhone sempre carico. Ci sono le famiglie a impatto zero che non usano la macchina ma salgono su quella degli altri, al punto da farti pensare che la vera sostenibilità sia lo scrocco. Ci sono quelli che dopo la villeggiatura al mare staccano in alberghi di montagna extra lusso per dieci giorni. Perché vuoi mettere quanto fa bene l'aria delle Dolomiti ai bambini? Ci sono quelli che non temono lo iodio e al mare ci stanno giorno e notte e al terzo giorno non lavano neppure più il ciuccio caduto nella sabbia a testa in giù. Ci sono quelli che ironizzano sul maltempo che li perseguita e postano foto #nofilter da località sempre amene e sconosciute. Insomma su Facebook ci siete tutti vuoi e tutte le vostre vacanze mi paiono meravigliose e poetiche quanto i tramonti che immortalate. Non avete l'aria di quelli che litigano per la temperatura dell'aria condizionata in camera e per le consumazioni al mini bar. Sui social l'unico filtro obbligatorio è quello della felicità e della costante autopromozione di sé. Una sorta di terapia che qualcuno dovrebbe prescrivere ai più cinici di noi. Quelli che quando vedono lo zaino del compagno di divano ricolmo di libri non si capacitano. Come diavolo pensa di leggere in spiaggia con due bambine che sono un'associazione a delinquere? Ed è indubbio che ce la farà. In fondo è sempre quello che a una festa di nozze con centinaia di invitati è riuscito a mangiare tutte le portate del menù.

In un litigio le osservazioni sull'età sono colpi sotto la cintura

Dal Giornale del Popolo del 30 luglio 2015

«Hai 35 anni, contieniti». Forse fino alla vecchiaia cercherò di capire se mi abbia offeso più la prima parte della frase o la seconda. Abbiamo sempre pensato, celandolo sotto l'indifferenza, un fondo di ammirazione per i maschi. Innamorati o indifferenti che fossero, sono sempre stati una certezza. Sapevamo che ogni arrabbiatura andava condivisa con le amiche di sempre e poi ripresa in mano con loro. Perché non c’è niente come la definitività di un maschio per analizzare i problemi con lucidità. Come sempre, però, a fregarci è l’immaginario costruito dai film. Quelli in cui si litiga e si discute ma ci si abbraccia al momento giusto, un attimo prima di dire una cosa che scaverà dentro il cuore e il cervello per tutta la notte successiva. Peccato davvero che nella realtà non ci siano i titoli di coda e i cavalli bianchi non siano così veloci e i principi azzurri siano così scarsamente dotati di tempismo. Abbiamo i maschi veri, quelli che improvvidamente discutono con noi e per un attimo sembrano giustificare persino le più grandi cattiverie di un capo dispotico. Se una donna piange disperata e singhiozza vuole solo che un maschio la abbracci e la stritoli d'amore a fare da corazza a un mondo di gente senza cuore. Soprattutto: una donna non può sentirsi rinfacciare la sua età come incentivo al contegno. Altrimenti non resta che buttarsi sul prosecco e il contegno va a farsi benedire.

Un editoriale sul GdP

Dal Giornale del Popolo del 24 luglio

Io vorrei non dire niente. Da martedì una famiglia ha un dolore enorme e un angelo che dal cielo tirerà la sottana alla Madonna fino a ottenere per il suo papà e la sua mamma un po' di pace, loro che di pace non ne hanno più da quando lei se n'è andata atrocemente. Solo a pensarlo o a descriverlo quel fatto di cronaca è troppo penoso, insensato, assurdo come solo sa essere la morte. Di atrocità ne succedono ogni giorno ovunque, forse anche di peggiori; eppure chi ha letto la vicenda della bimba morta nel parcheggio del camping di Muzzano non si dà pace per quei genitori che hanno perso la loro piccola lasciata in auto.
La ricerca delle responsabilità, i sensi di colpa, lo sgomento: niente colma quel vuoto.
Penso che possiamo dimenticare tutto perché siamo tutti dei poveracci. Non lo siamo perché la vita di oggi è frenetica, non lo siamo perché immaturi incapaci di concentrazione, non lo siamo perché noi moderni abbiamo troppi lussi, non lo siamo perché pensiamo troppo al lavoro, non lo siamo perché usiamo l'auto anziché la bicicletta, non lo siamo perché questo mondo s'è corrotto e imbastardito. Lo siamo perché miserabili siamo tutti dalla notte dei tempi e il diventare genitori non proietta nessuno in un universo in cui tutto torna. Non è neppure la retorica dell'imperfezione, questa, ma la descrizione della banale e tremenda normalità in cui non si hanno le forze per preservare dal dolore e dalla morte chi si ama.
Ci sono dei Salmi antichi che rotolano in testa come le poesie imparate alle elementari, anche a chi non mette più un piede in una chiesa dal dopo Cresima e oggi si trova a pregare, come trasportato dall'inerzia, per quella mamma e per quel papà: “Si dimentica forse una donna del suo bambino? Se anche ci fosse una donna che si dimenticasse io non ti dimenticherò”. 

venerdì 17 luglio 2015

Un curriculum di grandi emozioni

Dal Giornale del Popolo del 17 luglio

E quindi ho cominciato dall’inizio. Luogo e data di nascita, indirizzo email e residenza. Nemmeno l’anno di nascita mi ha messo in imbarazzo come quello che è venuto dopo. Esperienze di lavoro, studi, competenze tecnologiche. L’area interessi personali non l’ho nemmeno presa in considerazione, perché ho talmente tanti interessi (specie da quando ho scoperto – non è mai troppo tardi – i romanzi di Elena Ferrante) che non ho tempo di compilare la sezione “interessi” sul curriculum e poi perché la ritenevo degradante come il momento in cui si chiede alle aspiranti Miss di dire qualcosa di sé. Dicci qualcosa di te, dimostraci che non sei completamente idiota e che possiamo votare le tue belle gambe e il tuo bel viso senza sentirci troppo in colpa. Dicci i tuoi interessi perché possiamo passare rassegna la tua vita spiattellata in un foglio word e scartarti perché hai citato il viaggio e la lettura tra i tuoi interessi personali. Se qualcuno in questo momento ha in mano il mio curriculum, insomma, saprà che ho studiato meno di quanto avrei dovuto, che ho perso tanto tempo e tanto ne ho guadagnato. Che ho passato molti anni della mia vita a raccontare storie e scrivere cose che non ci stanno in un curriculum. E ora vorrei attaccare una tiritera sul fatto che è ingiusto ridurre una persona a quello che fa e ai lavori che ha messo in fila. In realtà però il mio unico rammarico è che la capacità di comprare abiti e accessori non sia ritenuta una qualifica importante quanto la padronanza delle lingue. Perché io, amici, la lingua del consumismo non la parlo bene. La parlo benissimo. 

mercoledì 15 luglio 2015

Caldo, meno caldo ed esercizi di positività

Dal Giornale del Popolo del 10 luglio

C'è un'arietta benedetta che da respiro alle nostre ascelle e provoca risultati difficili da gestire. A cominciare dalla ridotta possibilità di lamento. Niente più utilizzi spropositati e diffusi del termine “canicola” (così di moda in questi tempi) se non per ricordare con ansia i giorni passati in cui c’era la canicola. “E siamo solo a luglio, signora mia!”. Senza caldo asfissiante non sappiamo più cosa dirci. Non è più come tre giorni fa, quando ogni chat e ogni uscita sui social era una gara a chi stava peggio: «36 gradi a Roma, come a Milano». «Sì ma vuoi mettere l’umidità?!». Si lamentano anche quelli che sono al lago o al mare, magari già coi piedi a mollo: «È caldo persino qui». E gli interlocutori cittadini rispondono con invidia e un pelino di astio: «Ti farei provare la vista cemento». Nessuno, e dico nessuno, che si senta più fortunato (o meno sfortunato) di altri. Nessuno e dico nessuno che pensi che a 36 gradi si sta meglio che a 38 e che stare in un ufficio a inventare sciocchezze è sempre meglio, con questo caldo, che stare a raccogliere pomodori in un campo schiantato dal sole. Tutto questo per dirmi che io mi sto esercitando alla positività, anche solo parziale: perdere 1kg è sempre meglio che perdere 800 grammi. O no?

lunedì 29 giugno 2015

Il razzismo ciclistico di chi offre lavoro

Dal Giornale del Popolo del 26 giugno

Il mio mentore su tutto ciò che è arte e cultura spicciola, per esempio, mi ha insegnato che il primo posto dove porre le proprie domande e indirizzare le proprie ricerche è Google. Così in un giorno di particolare insoddisfazione e insolito spirito di iniziativa ho digitato su google: lavoro part time, già pronta a farmi quattro risate per i compensi ridicoli, imbarazzarmi per le proposte ammiccanti, indignarmi per le mansioni degradanti e deprimermi per la quantità di lauree e conoscenza di lingue straniere richieste per la più periferica delle portinaie. Ero pronta, insomma, fino a che non mi sono imbattuta nel lavoro che ogni pseudointellettuale sogna nel proprio piano immaginario di riscatto, quello in cui la mente è trascinata fuori dalle secche grazie alle fatiche del corpo: commesso con consegna in bicicletta. Col compenso mensile ci comprerei sì e no una bottiglia del mio profumo preferito; richiede un'ottima padronanza di pacchetto Office quando su Excel so solo mettere in ordine alfabetico le parole; però è rivolto sia a uomini che donne e prevede un impegno da metà mattinata al primo pomeriggio il che lascerebbe il tempo (anche se non i soldi) di svariate ore di shopping fuori dall'orario di punta. “Età massima: 28 anni”. Maledetti razzisti. Non ci vuole forse tutta l'esperienza di chi è uscito vivo dai trent'anni per affrontare il traffico caotico della città armata di due pedali e un caschetto da sfigata? Lo vogliamo dire o no che questo è razzismo ciclistico bello e buono? Diciamolo, battiamoci per il diritto di ex ragazze over trenta a pedalare per lavoro. Facciamolo per loro, mica per noi indossatrici di “quei 20 anni portati così, come si porta un maglione sformato su un paio di jeans”.

venerdì 19 giugno 2015

Fai una sera a Villa Necchi Campiglio

Dal Giornale del Popolo del 19 giugno

Costruire cose che ci sopravviveranno, fare di tutto perché ci siano, grazie a noi o nonostante noi. È una sorta di urgenza di utilità quella che mi è piovuta addosso ultimamente. Fatale dev'essere stata la visita a Villa Necchi Campiglio. La guida raccontava a noi strizzati in 4 in 85 metri quadrati che in quella casa a due passi dal Duomo di Milano vivevano stabilmente solo tre persone: le due sorelle Necchi e il marito di una delle due. Prima di morire una delle sorelle ha voluto che la villa andasse Fondo per l'ambiente italiano, che ne ha fatto il luogo visitabile che è oggi. Io sono capitata lì e avrei dovuto applicarmi agli zigomi in bilico della signora del tavolo a fianco, invece niente. Pensavo al genio di Piero Portaluppi che ha progettato uno spazio così elegante in grado di servire in tutto senza sbagliare niente; alla generosità di una collezionista d'arte moderna, Claudia Gian Ferrari, che ha voluto collocare molte delle sue opere in quelle stanze. Amava a tal punto i suoi quadri e le sue sculture da chiedere di potersi accomodare ogni tanto in una stanzetta della villa per stare in loro compagnia. Non mi sono mai emozionata tanto e non solo perché la serata era resa possibile da una babysitter nuova di zecca. Ho pensato a quanto il bello non sia effimero, a quanto, a ben vedere, l'unica cosa frivola e caduca, sia la bruttezza. Ho pensato al lavoro e al fatto che non può che essere una variazione sul tema di quella tensione alla bellezza e all'utilità. E ho capito che tutti abbiamo bisogno di una stanza per stare in compagnia di ciò che è talmente bello da farci sentire vivi. Anche nei nostri 85 metri quadrati o nei nostri open space con l’aria viziata.

mercoledì 10 giugno 2015

Fondazione Prada off limits per i passeggini

Dal Giornale del Popolo del 5 giugno

Alla Fondazione Prada noi ragazze ci eravamo andate per un caffè. Solo una volta arrivate ci siamo accorte di due cose: che il dress code in certi posti è un problema insolubile e che esistono bambine di tre anni che non si accontentano di una brioche al bar disegnato da Wes Anderson, ma a un certo punto chiedono di “entrare a vedere le statue”. “Le statue” erano quelle scelte da Salvatore Settis per la mostra Serial Classic. Di più non so perché la madre non ha potuto soddisfare l'insana curiosità culturale della bambina. “Il regolamento impone che il passeggino venga lasciato fuori”. Di fronte alla prospettiva dell'altra bimba, che non arriva a due anni, libera dal passeggino e in condizioni di distruggere secoli di storia anche la madre single più agguerrita tira i remi in barca. Fuori dal museo (bellissimo, mi dicono) c'erano altri genitori appesi ai passeggini. Ora: io non ho problema alcuno a pagare una babysitter né appartengo a quei genitori ultras del diritto “a portare dei bambini ovunque”. Gli ultras della maternità, siano i gruppi pro life o le madri instagrammer immortalatrici seriali dei loro bambini, non li tollero come non tollero nessun portatore di eccesso di zelo. Non chiedo spazi per i bambini, né attenzioni particolari, solo condizioni di minima agibilità che rendano percorribili i posti normali. Vorrei dirvi come fanno alla Tate Modern o nei musei di Parigi e Berlino, con l'unico provincialissimo intento di mostrarmi persona di mondo. Sono anche tentata di farne una questione educativa e dire che con questa mania di escludere i bambini dai posti normali li trasformiamo in mostriciattoli che non sanno stare al mondo. Vorrei dire tante cose, ma mi mangio le mani come sempre per non aver detto l'unica cosa importante al momento giusto alla signorina della biglietteria: “Se non entro io non entra neanche quel tizio con le scarpe Prada sport di quindici anni fa, ok?”.

Se non è storytelling, non vale

Dal Giornale del Popolo del 29 maggio

Doveva essere la scelta risolutiva, quella in grado di dare una svolta all’azienda, consentire un’organizzazione intelligente del lavoro che avrebbe permesso a ciascuno di vivere al meglio le proprie responsabilità. Poi dopo pochi mesi il nuovo capo si è trasformato nel solito stronzo e l’entusiasmo dei collaboratori (tornati ad essere sottoposti nel tempo di un click) è tornato nel cassetto, dimenticato come si dimentica una cotta estiva poco significativa. Come in ogni grande delusione restano i ricordi. Per esempio quelli sulle infinite discussioni sullo storytelling. Perché noi non facciamo mica i comunicati stampa, neppure le strategie social, noi non diciamo cose col fine di vendere, noi siamo maestri nella nobile arte del racconto. Noi non vogliamo beceramente scrivere, ma poeticamente raccontare: per questo la parola d’ordine è storytelling. Raccontarsela e raccontarla, perché non c’è potere maggiore di quello di raccontarla come si vuole. Allora, se avete ospiti a cena questa sera, non pensate a quanto avete speso in rosticceria stamattina. Mettetevi lì a raccontare, a dire, descrivete come avete tagliato le verdure e come le avete saltate in padella. Parlate di quella ricetta, dell’amore che ci avete messo e di come le bambine mangino volentieri le verdure. Siamo in tempo di Expo e il pianeta va nutrito con qualche storiella come si deve. Storytelling, appunto.

Galateo da scivolo

Dal Giornale del Popolo del 15 maggio

Quello che i maschi fanno (così si dice) nello spogliatoio della palestra, le femmine (soprattutto in quella evoluzione discutibile che le porta ad essere madri) lo fanno al parco giochi con bambini al seguito: si misurano. Difficile infatti pensare che sia una reale passione educativa a trasformarci in inflessibili agenti del traffico su uno scivolo alto un metro: «Gemma fai passare Sofia, su, c'era prima lei. Rocco non vedo che Edoardo e Ludovico vogliono giocare con Ginevra? Spostatevi dalle scale. Vuoi magari andare sull'altalena con Sofia? O fare un bel giretto sul cavallo a dondolo?». Sempre che le situazioni non precipitino al punto da richiedere l'artiglieria pesante: «Non pensare che io sopporti questi capricci! Ce ne andiamo subito a casa. Eh no, questo è troppo! Niente pizzetta, niente TV, lo dico a tuo padre». Le minacce ovviamente non hanno presa su alcun bambino (che non concepisce niente che non sia nel presente), ma si utilizzano col solo scolo di dimostrare alle altre mamme quanto rigore regni in casa nostra. Eccolo, il pubblico che veramente ci interessa: la platea delle altre mamme, che ha preso il posto delle commesse dei negozi importanti nella categoria degli esseri umani nei confronti dei quali vogliamo dimostrarci all'altezza. 

Charlotte, Elizabeth, Diana: un nome un programma di lotta

Dal Giornale del Popolo dell'8 maggio

«Primo figlio: bagnetto ogni sera, utilizzando una vaschetta speciale che riproduce la sensazione dell'utero materno. Secondo figlio: una lavata una volta a settimana (la piscina è inclusa nel conteggio)». Basta anche solo un assaggio del divertentissimo decalogo delle differenze tra primo e secondo figlio redatte da un comico americano per pensare che i secondi figli, in fondo, con quest'aura di indifferenza che li circonda proprio per il fatto di arrivare per secondi, se la godono. La prima parola non è festeggiata con feste e telefonate a tutto il parentado, ma accolta distrattamente come si fa con quei gadget utili che si attendevano da tempo: finalmente capiamo cosa vuole dire! Il fatto che nessuno si metta a quattro zampe per provocarne i gorgheggi, rende i secondi figli inifinitamente più tranquilli e (parola di secondogenita) in grado di cavarsela da soli. Probabile che questo accadrà anche a Charlotte Elizabeth Diana, la secondogenita di Kate e William di Inghilterra, la cui professione di principessa sarà verosimilmente resa meno gravosa dalla mancanza di primogenitura. Sarà pensando a questo che i genitori le hanno imposto dei nomi che, se la geopolitica sentimentale contasse anche fuori dai rotocalchi, sarebbero sufficienti a scatenare un conflitto mondiale. Ci manca solo che i compagni le aggiungano “Camilla” per prenderla in giro.

venerdì 24 aprile 2015

I rimedi miracolosi dell'amica dell'amica della zia


Dal Giornale del Popolol del 24 aprile
Una cliente della zia, una di Roma, specifica mia madre con visibile soggezione per una sorta di argomento di autorità cittadina, dice che la vita svolta bevendo un bicchiere d’acqua col bicarbonato ogni sera. Non è che sia buonissimo, ma si può fare. L’ultimo rito che assicura l’eterna giovinezza, la salute, la fine dei dolori articolari e, chissà, magari anche la magrezza si aggiunge ovviamente a tutti gli altri rimedi infallibili. Il mezzo limone spremuto nel bicchiere d’acqua tiepida la mattina, il tè verde come se piovesse e poi i granuli omeopatici. Perché per quel terribile dolore alla schiena non si può mica continuare con le infiltrazioni di cortisone, quindi ci buttiamo sulla medicina alternativa. E ovviamente sulla crema miracolosa consigliata dalla fisiatra dell’altra zia. Un prodotto che ovviamente non si trova, bisogna ordinarlo e pare che addirittura venga dall’America (l’argomento d’autorità geografica risulta enormemente più efficace con un Oceano di mezzo). Se ai rimedi per lo star bene («Ma mamma, per cosa fa bene?» «Per tutto, prendi!») aggiungi le chiacchiere da ufficio con tasso di pseudonutrizionismo ad alta stagionalità, ti ritrovi a discutere di ossa pesanti, massa grassa e massa magra, grasso viscerale, fibre, carboidrati e la mitologica perdita non di peso ma di taglie. Non ci resta che sperare che l’acqua col bicarbonato sia efficace anche contro il mal di testa.

La funzione sociale della moda: tracciare il confine tra chi può e chi non può

Dal Giornale del Popolo del 17 aprile
Formalmente era un giro negli eventi milanesi collegati al Salone del Mobile, in realtà si trattava di una spedizione culturale notturna, per capire dove stiamo andando e prendere il polso a tutto quel mondo indie e creativo che affolla eventi di questo genere. Abbiamo scoperto che gli occhiali da nerd vanno ancora di moda e più sono grandi più sono giusti ma ormai il nero è un colore superato: ora tocca barcamenarsi tra colori marroni, beige e tutto quello che indossavano da giovani i nostri genitori e che, appena qualche anno fa, ci faceva sorridere nelle foto d'epoca. E poi abbiamo avuto la conferma che nel mondo dei veri fighetti alternativi i sandali si portano col calzino. E i jeans sono a vita altissima, le scarpe da tennis si portano con le gonne, gli zainetti in spalla e in testa turbanti o fasce per capelli. Stanno arrivando, implacabili come uno tsunami, anche gli zoccoli: di legno, soprattutto. Ancora una volta, insomma (e il giro del Salone del mobile lo conferma in quanto vetrina privilegiata di una certa avanguardia antropologica), torna di moda tutto ciò che è largamente antiestetico. Gli zoccoli, gli occhialioni, i jeans ascellari, la zeppa. È la moda, bellezza. Spietata e irraggiungibile e con l'unica funzione sociale di tracciare il solco tra chi può permettersi certe antiesteticità e chi non può farlo ma ci prova, risultando immancabilmente sciatto anziché alternativo. Il confine, come sempre, è labile. E questo rende le nostre spedizioni molto più divertenti.

venerdì 10 aprile 2015

La guerra dei Pan di Stelle

Dal Giornale del Popolo del 10 aprile

No more morning dramas. La mail pubblicitaria di uno dei siti di shopping che non frequento da troppo tempo stamattina ci ha visto giusto. Peccato che, con questo inizio di primavera e gli strascichi di jet leg da ora legale, i drammi mattutini in casa siano tristemente lontani da quelli del guardaroba. Sono quelli esistenziali di una bambina di tre anni che ha gli stessi problemi degli ultratrentenni che dormono nella camera a fianco alla sua e semplicemente, candidamente, non vuole alzarsi perché sta bene a letto e la luce che entra dalla finestra è insopportabile per chi è ancora stanco e vuole rimanere sotto le coperte. Se, per qualche combinazione astrale, riesce ad alzarsi la colazione è il primo campo minato. I Pan di Stelle di forme diverse, che probabilmente la Mulino Bianco s’è inventata per smaltire le rimanenze dei biscotti natalizi, sono un casus belli comunque vada. Se una pesca quello a forma di cuore, lo vuole anche l’altra, se una trova quella senza buco, lo vuole anche lei, salvo poi incominciare a strillare perché ha cambiato idea e il livello del latte nella tazza è troppo basso. Ci vuole molta concentrazione e una buona dose di sangue freddo per continuare a passarsi l’ombretto senza tentennamenti mentre imperversa la guerra dei Pan di Stelle. E per continuare a pensare a come candidare la propria casa come set cinematografico per quando il Mulino Bianco deciderà di buttarsi sul pulp. E raccontare finalmente cosa accade nelle case vere a colazione. 

giovedì 9 aprile 2015

Quando in vacanza si cercava tutto tranne il relax

Dal Giornale del Popolo del 3 aprile

Il vantaggio di essere in una zona della vita in cui i 40 si vedono senza bisogno del cannocchiale è che guardare indietro, e soprattutto farlo in compagnia, è infinitamente più bello e più divertente. Così una discussione iniziata sbuffando perché non si trova un posto dove andare in vacanza con i bambini senza sentirsi una famiglia media con station wagon e canotti gonfiabili nel baule, è finita in un amarcord sulle vacanze di tanti anni fa. Quando non si cercavano location rilassanti o tariffe convenienti, ma posti in cui divertirsi in infradito senza andare mai a dormire e in cui si chiudeva facilmente un occhio sulla pulizia della stanza e il rifornimento del minibar, se si tornava a casa con un pieno di occhi dolci da parte di qualche ragazzo, preferibilmente del posto. I vitelloni di allora ricordano le imprese di gioventù e parte dell’epica è quella di denigrare i giovani d’oggi, che non sanno offrire da bere a una ragazza senza chiederglielo prima su WhatsApp. Seguono discettazioni su come erano bravi loro e quanto erano professionali nel dedicarsi con passione e metodo a tutte le ragazze, belle o brutte. È un altro mondo e qualcuna di noi rimane perplessa, pensando a una gioventù con molti libri e molti sogni e troppo poche infradito. E resta che gli anni passano. Ma uno smeraldo è sicuramente un modo splendente per ricordarselo.

Alla fiera degli ammiccamenti

Dal Giornale del Popolo del 27 marzo

Alle fiere le hostess hanno sempre e ancora lo stesso ruolo: decorativo e piacevole. Il condannato chiuso in una struttura con moquette in terra e neon al soffitto per otto ore al giorno per almeno due o tre giorni ha diritto a un rancio fatto di occhioni, chiome fluttuanti e cosce in bella vista. Detto questo bisogna discutere del fatto che non esiste niente di tanto serialmente costruito per il piacere di noi donne: il che significa che di bei ragazzi, nelle manifestazioni fatte per vendere qualcosa, ce ne sono troppo pochi e di sicuro non esposti con il metodo e la visibilità che invece vengono riservati alle donne e tutto ciò che gira loro intorno. Poi bisognerebbe discutere del fatto che i leggings sono per gli anni Duemila quello che le minigonne furono per gli anni Settanta; sicché oggi nelle fiere le hostess si sentono legittimate a non mettersi la gonna ma i pantaloni. Ma soprattutto bisognerebbe discutere di quanto sia grottesco e imbarazzante questo continuo salutarsi e darsi pacche sulle spalle e fare sempre battute ammiccanti. Soprattutto quando accade tra uomini e donne di una certa età. E adesso, adesso che anche la Ficcanaso ha davvero una certa età, quella di invecchiare in maniera decorosa è una priorità. Una priorità che non vendono alle fiere.

Di principesse e bambole di pezza

Dal Giornale del Popolo del 20 marzo

Siamo moderni. I nostri figli sono piccoli e noi pensiamo a già a come raccontargli cosa succede nel mondo. Compriamo per loro libri importanti (quell'edizione di Alice nel paese delle meraviglie illustrata da Yayoi Kusama aspetta solo qualcuno che la sfogli avidamente), ci attrezziamo alla meglio per comprenderli con qualche rudimento di psicologia infantile. I più previdenti di noi hanno anche pronta la spiegazione di come nascono i bambini, ci hanno pensato hanno costruito una narrativa che ritengono credibile e aspettano con sostanziale serenità il momento delle domande. Domande che sono comunque meno scabrose di quelle sulle principesse. Di fronte a un mega poster di Cenerentola la bambina che sta per compiere tre anni ha notato subito le cose importanti: il vestito, azzurro e un po' scollato e la scarpetta. «Ma perché deve perdere la scarpa?». «Questione di destino, bambina mia. Se Cenerentola non perdesse la scarpetta non incontrerebbe il principe». La bambina di cinque anni, uscita dal cinema, si sente chiedere dal padre cosa pensi del principe azzurro. «Sei più bello tu, papà», risponde a un uomo ormai definitivamente schiavo della sua bambina. Peggio che coi grandi classici va quando le bambine chiedono della principessa Sofia. Su internet la Disney spiega che è una principessa che insegna che «sono gentilezza, generosità, lealtà, onestà e grazia che rendono speciale ogni persona, e non ciò che indossa». Con buona pace di noialtre, che ci illudevamo di poterle tirare su con le bambole di pezza, dribblando il consumismo con il radical chic. 

venerdì 13 marzo 2015

Team building e terapia di coppia

Dal Giornale del Popolo del 13 marzo

Tu che ti lamenti che lui non ti racconta mai niente, lui che non contempla distrazioni adesso che c'è un'intera serie di House of Cards da smaltire, i colleghi che scuotono la testa alla macchinetta del caffè perché “è mai possibile che cambiano il cappuccino con il caffè d'orzo senza avvisarci?”. Che sia in un matrimonio o in un'azienda è sempre la comunicazione il problema. Fatevi un'esame di coscienza e pensate se le liti non iniziano così. Non importa quale sia l'oggetto del contendere: le vacanze al mare, l'aumento del prezzo del caffè alla macchinetta, una quotazione in borsa o un sospetto di corna. Non importa neanche che si invochi chiarezza in situazioni che di chiaro non potrebbero avere nulla nemmeno nel migliore dei mondi possibili. Importa riferirsi sempre a un altro (presunto) universo in cui le cose funzionano e le comunicazioni arrivano, un altro mondo la cui unica caratteristica certa e di non essere quello in cui viviamo noi. E allora più comunicazione per tutti. Dovrebbero fregarsi le mani i laureati in Scienze di quella cosa lì e fare il tifo per chi propone soluzioni mirabolanti e certificate per rispondere a questi problemi. Dovremmo anche noi tifare per le sessioni di team building invece di domandarci in cosa si differenzino dalla terapia di coppia. Dovrei mettermi una mano sulla coscienza e credere alla laurea che ho nel cassetto. E smettere di pensare a mio padre, che non sa cosa siano i team né gli esperti di comunicazione, ma ha sempre ricevuto polli, conigli e damigiane di vino buono dai suoi operai. E non ha mai speso un euro in web reputation e team building.

Senza screenshot che Facebook sarebbe?

Dal Giornale del Popolo del 6 marzo

Ti telefonano come chi aspettava il cadavere sulla riva del fiume da tempo: «Hai ceduto eh?». Qualunque giustificazione li scatenerebbe: «Sì, figurati! Imparare a usare Facebook per lavoro!». Bisogna dissimulare, perché la gente digerisce meglio una conversione che una resa. E quindi occorre mostrarsi entusiasti e desiderosi di sapere: chiedere informazioni su tag, politiche di privacy, foto dei bambini, trucchi tecnologici per evitare richieste di amicizie indesiderate. Nell’insegnare al neofita gli amici danno un senso al loro essere su Facebook da un secolo: raccontano che un tempo non c’erano certe opzioni di privacy, che alcuni album fotografici possono essere visibili solo a chi vuoi, che i tag sono roba superata, che un “mi piace” non si nega a nessuno e non significa certo approvazione per il contenuto. Ti forniscono un codice di comportamento che tu devi vagliare per costruirne uno tutto tuo e se non hai nessuna intenzione di farlo puoi sempre dire di non avere tempo. Che in fondo ti si nota di più se su Facebook ci sei ma non lo usi. Che ti sei convertita per dedicarvi un’attenzione discontinua e distratta, come a tutto, del resto. Dà sempre l’idea che tu abbia altro da fare. Soprattutto se la tua principale occupazione è fare screenshot di cose ridicole e dibattiti imbarazzanti su Facebook per mettere legna sul fuoco sempre acceso del pettegolezzo via WhatsApp.

Mamme, figli e allergia alle storie edificanti di conciliazione

Dal Giornale del Popolo del 27 febbraio

Donne che si mettono in proprio, che diventano madri e decidono di cambiare lavoro, magari su gentile suggerimento di capi che proprio non tollerano di non vederle più davanti al computer fino alle sette di sera, a fare compagnia a quei maschi decisi a non tornare a casa finché ci sarà qualcuno sveglio. A volte succede che tutto va per il meglio e così quelle storie di successo discreto e conciliazione raggiunta arrivano sui giornali, corredate da fotografie di belle ragazze con un taglio corto e mai trascurato che spiegano quanto è bella la vita da padrone di se stesse. Certo, le bollette del negozietto di abiti vintage per bambini che hanno aperto le pagano per miracolo e in fondo se non ci fossero dietro padri, mariti o eredità tutta questa padronanza di se stesse non farebbe tornare i conti. Però vuoi mettere quanto è facile chiedere un occhio su tutto questo trovando il filtro giusto di Instagram? Così fiorisce una letteratura di storie edificanti. Che leggere fa piacere, per carità, ma fa anche un po' di rabbia. Chi lo dice che per far figli e lavorare si debba per forza diventare imprenditrici? E se una, dico una di voi, non avesse lo spirito imprenditoriale ma neanche quello della massaia?

venerdì 20 febbraio 2015

Il tuo mondo in un ufficio


Dal Giornale del Popolo del 20 febbraio
Nell’ultimo cassetto ci sono i cucchiaini per lo yogurt, lo spazzolino da denti, un’aspirina, un paio di bustine di tè. Persino un deodorante spray da diffondere discretamente nell’ambiente quando l’ascella del vicino di scrivania si fa troppo invadente. Sarà perché tutto sommato ci trascorriamo più tempo che a casa, ma nei nostri uffici ricreiamo un po’ del nostro ambiente, facendo provviste di oggetti di prima necessità, segnando il territorio con oggetti che dicano chi siamo. Dalle foto ai disegni dei bambini, passando per i fiori e i ricordi. Per questo cambiare scrivania è un po’ morire e fa paura come un trasloco dalla casa di una vita. Ritrovi cose sepolte sotto anni di polvere e ricordi. Ho visto ragazze piangere al momento di firmare una lettera di dimissioni, altre farsi venire gli occhi lucidi perché il capo le ha spostate al piano di sotto, lontano dai colleghi con cui condivideva i cucchiaini per lo yogurt. Cambiano vita, si ritrovano in ufficio con poche finestre e aria pesante. E il primo giorno non mangiano per non sbagliare, poi la fame vince e si aggregano a chi sta uscendo per un panino. Fino a che una mattina non arrivano abbastanza presto da origliare i discorsi alla macchinetta del caffè. E così, tra Cinquanta sfumature di grigio e dissertazioni sulle ultime tendenze della depilazione, capiscono che forse tutto il mondo è paese. Un paese dove i grafici hanno sempre qualcosa da ridire sulle foto che gli sottoponi e i tecnici dei computer insultano chi usa i Mac.

venerdì 13 febbraio 2015

Sanremo è uno specchio. E allo specchio non ci si piace mai

Dal Giornale del Popolo del 13 febbraio

Che sia per insultare gli zotici che non lo capiscono o per biasimare gli zotici che lo guardano. Che sia per reale passione per Anna Tatangelo o per vezzo ultra snob di intrattenersi con manifestazioni care alla massa. Che sia per colpa del brutto tempo o per colpa del franco messo com'è (ché ormai se parli di qualunque cosa senza mettere in mezzo valutazioni di politica monetaria da quattro soldi non sei nessuno). Insomma: qualunque sia il motivo, di Sanremo bisogna parlare. È pur sempre un festival e della canzone italiana e qui si scrive in italiano. Perciò: Arisa è più infastidente di un secchio di sabbia nel costume; Emma impalata, Charlize Theron di una bellezza imbarazzante, con l'unica colpa di non aver trascinato sul palco dell'Ariston anche quel pezzo d'uomo di Sean Penn (suo attuale fidanzato). La famiglia con 16 figli e il cantante dal genere sessuale indefinito scelti con la logica della par condicio dei fenomeni da baraccone. Carlo Conti funziona, ma vuoi mettere quanto ci divertivamo l'anno scorso a prendercela con Fazio? O anni fa quando il direttore artistico era Tony Renis e Giuliano Ferrara lo definì il Gramsci di Berlusconi? Alternativamente ogni anno rimpiangiamo il festival quando era di sinistra, quando era di destra, quando aveva ospiti costosi, quando ne aveva di low cost, quando le vallette si presentavano scosciate o coperte come per andare alla Messa. Come ogni anno dà un senso al nostro essere su Twitter, a cercare la battuta fulminante da digitare velocemente, almeno prima di addormentarci. Sempre a dire come sarebbe stato meglio se. Perché è uno specchio. E allo specchio, si sa, non ci si piace mai.

Uscirà il sole, come dice Barbara D'Urso

Dal Giornale del Popolo del 6 febbraio

Passerà. È sempre stata la mia terapia segreta per più o meno qualunque cosa. Resto convinta che sia una filosofia di vita niente male, applicabile (con la leggerezza e il buon senso che andrebbero venduti in ogni supermercato) ai campi più diversi del nostro esistere. Passerà questa moda dei risvolti ai pantaloni, passerà la mania dei tatuaggi e ci ritroveremo over 80 col deambulatore eun teschio sull'avambraccio o un fiocchetto nella nuca. Passerà quest'età in cui sembra impossibile fare dei figli e lavorare e voler fare tutte e due le cose senza essere accusati di maternità irresponsabile o di manie carrieriste. Passerà questa lunga Isola dei Famosi in cui ogni cocco e ogni onda del mare ci ricordano Simona Ventura, con lo stesso turbamento con cui ogni maglietta di gioventù ci ricorda un concerto vissuto con qualcuno di importante. Passerà la mania antiossidante e ci ritroveremo a regalare agli amici il succo di melograno e le bacche di Goji. Passerà il risentimento per quei regali di Natale e compleanno che non sono ancora arrivati e forse anche quello per aver ricevuto in dono un libro in edizione economica e persino usato. Passerà l'inverno e come dice Barbara D'Urso “Tanto prima o poi esce il sole”. Tornerà primavera. E non ci sembrerà così grave avere la stessa filosofia di vita di Barbara D'Urso.

venerdì 23 gennaio 2015

Baciami, carciofo

Dal Giornale del Popolo del 23 gennaio

Il carciofo, oltre ad essere bellissimo, è anche antiossidante. Se non sai cosa significa te lo spiega la nutrizionista, le cui parole di vita sono stampate in bella evidenza nella tovaglietta di carta su cui ti appresti a consumare il tuo pasto. Nell'altro lato della tovaglietta, quello che di solito si dà ai bambini per disegnare, ci sono mille rimandi a siti e social network per, nell'ordine, pubblicare le foto del pasto appena consumato; ripassarne il contenuto nutrizionale e l'apporto calorico; notificare al prossimo i minuti di corsa necessari per smaltirlo. Qualcuno dice che è colpa degli allergici e degli intolleranti, io credo che sia solo l'ultimo effetto dell'eccesso di zelo che imperversa nel nostro tempo: ma vogliamo sapere tutto. Conoscere gli ingredienti, la provenienza, la temperatura della stanza di stagionatura, la collocazione geografica della cantina. Pare che sia per questo che le grandi catene di fast food sono in sofferenza, la gente non si accontenta di addentare un hamburger prima di andare in discoteca, ormai tutti vogliono sedersi, assaporare, degustare, ammorbare i commensali con i propri commenti, rivelare l'ultima sensazionale proprietà del carciofo. Forse pensano che anche loro, tra un po' di anni e con qualche moda noiosa in atto, potrebbero risultare belli. E magari anche antiossidanti. 

venerdì 16 gennaio 2015

Gwyneth nel negozio delle caramelle

Dal Giornale del Popolo del 16 gennaio 2015

Prendete un foglio e mettete in fila i nomi di almeno tre ex amori. Vi potrebbe salvare il fatto di non avere neanche una foto con alcuni di loro, il che dice subito della clandestinità delle vostre relazioni (manco vi facevate vedere in giro come coppia, figurati se sorridevate insieme davanti a un obiettivo), della vostra età (allora i selfie non c'erano) e della vostra irrilevanza pubblica (nessuno aveva interesse a scattare foto). Siccome nessuna delle tre condizioni si applica a Gwyneth Paltrow, pochi giorni fa sui giornali che contano sono apparsi lunghi e documentati articoli sui suoi ex. In una delle interviste promozionali per il suo ultimo film, infatti, l'attrice, nota per frequentare i carboidrati quanto noi frequentiamo le palestre, ha pensato bene, a 42 anni suonati, di parlare delle persone che frequentava a poco più di venti, quando, dice, «ero come un bimbo in un negozio di caramelle e frequentavo i ragazzi solo per il loro aspetto». Ed ecco che passano, una dopo l'altra, le foto di Brad Pitt, Ben Affleck e, ultimo amore e unico marito, Chris Martin. Gwyneth dà prova di maturità parlando degli ex, lo fa con la serenità di chi guarda le foto di quei vent'anni guccinianamente «portati così, come si porta un maglione sformato su un paio di jeans». Dice che è stato Brad a rompere e che per Ben non era proprio il momento di una storia seria. Pensi a tutte quelle caramelle giovanili e la Gwyneth di oggi, a dieta costante, non ti fa più così pena. E tu, con quel carnet di ex così scarno e così poco risolto psicologicamente, hai tutte le ragioni per spazzolare gli avanzi della calza della Befana.

venerdì 2 gennaio 2015

Il giorno dopo, il giorno della verità

Dal Giornale del Popolo del 2 gennaio

Non è l'aver mancato l'alba. Neppure l'essere arrivati a mezzanotte agilmente solo grazie al fatto che i bambini non volevano saperne di dormire. Non è neppure l'aver iniziato da mezzanotte e zero uno a pensare a quale mercato nero avremmo elemosinato mezzo chilo di pane il giorno dopo. In fondo per gente che ha sempre snobbato le feste dell'ultimo dell'anno, la declinazione casalinga e borghese della ricorrenza non è un'onta. L'onta, quella che svela quanto velocemente passino i capodanni e quanto sia lontana quella faccia liscia e perplessa che ci fissa nei documenti di identità, è il giorno dopo. Quello in cui i progettavi di goderti la città deserta, sfidando la temperatura nella certezza che il freddo stimoli le risposte metaboliche, e invece ti ritrovi sul divano con televisore acceso e testa pesante. Un giro di ricognizione virtuale svela che la sintomatologia è comune: nessuna voglia di uscire di casa, disperata ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti per la cena e rimpianto per non esserci divisi gli avanzi, perché quel cotechino con lenticchie a cui abbiamo rinunciato solo poche ore fa, adesso ci farebbe vergognosamente comodo. Che non abbiamo più il fisico lo capiamo il giorno dopo. E anche questo è un ottimo modo per ridimensionare l'orrenda frenesia da propositi tipica dei primi giorni dell'anno.