venerdì 24 febbraio 2012

Alle due e mezza del pomeriggio

Dal Giornale del Popolo del 24 febbraio
Ci sono ore del giorno che non vedevamo dai tempi delle elementari. Certo che ogni pomeriggio sappiamo che il sole si inclina in un certo modo, ma da tempo immemorabile lo vediamo farlo alla sinistra del mouse, lì tra la testa del collega e la finestra del tizio che guarda la tv nel palazzo di fronte. Un giorno libero in mezzo alla settimana è destabilizzante. Vedi le cose da una prospettiva talmente nuova da sembrare inedita. Dunque alle due e mezza del pomeriggio, mentre tu di solito ciondoli tra la macchinetta del caffè e il terrazzo, il supermercato è pieno di signore che fanno la spesa senza fretta. Non ci sono, a quell'ora, gli assatanati del pre cena che devono accattarsi un etto di prosciutto prima che mariti, amici o parenti si piazzino a tavola famelici. Non ci sono, alle due e mezza del pomeriggio, le post trentenni nevrotiche che razziano il banco dei surgelati con precisione chirurgica e velocità invidiabile. Alle due e mezza si discute di quale tipo di prosciutto cotto sia più adatto agli involtini. Alle due e mezza del pomeriggio l'estetista di fronte al supermercato ha tempo di farti una ceretta e chiacchierare dicendo di trovarti un po' ingrassata, perché lei – dice – si ricorda di tutte e dunque anche di te e del tuo peso forma. Dice, l'estetista, che probabilmente le nostre figlie un domani non dovranno fare la ceretta. Magari per le nostre figlie possiamo immaginare un futuro migliore, sospira pensando alle magnifiche sorti e progressive della depilazione definitiva per davvero. Forse le nostre figlie potranno anche andare al supermercato alle due e mezza del pomeriggio senza vergognarsi di non avere nessun involtino da preparare ma solo un banco surgelati da razziare. E di trovarsi a disagio a farlo con tutta la calma del mondo.

venerdì 17 febbraio 2012

Mutande scomode

Dal Giornale del Popolo del 17 febbraio 2012
Allora forse bisogna intendersi sul concetto di mutande. E così anche la discussione su Sanremo prende la piega di una di quelle belle polemiche in cui si finisce ricominciando dall'inizio, ossia rinegoziando il significato dei termini. Che le nostre nonne portassero della biancheria più simile a un'armatura è un fatto. Altrettanto lo è il dato che ai nostri tempi a un paio di mutande si chiede di essere perfettamente mimetizzabili sotto abiti succinti e pantaloni a prova di raggi X. Dio solo sa che cosa ci riserverà il futuro e che cosa indosseranno le nostre figlie, nel frattempo abbiamo visto l'altra sera che c'è ancora una cosa che si può chiedere a un paio di mutande: fare presenza, timbrare il cartellino, coniugare la garanzia dell'esserci con il brivido di trasgressione di far finta di no. Sì perché la seconda puntata di Sanremo, signora mia, s'è infiammata su questo interrogativo di fronte allo spacco vertiginoso dell'abito da sera di Belen Rodriguez: indossava o no gli slip? La risposta è che indossava un manufatto appositamente creato per mettere al riparo le pudenda dalla censura e allo stesso tempo esporre sapientemente il caso alla polemica. Certo che non erano mutande. Come non era cervicale quella che avrebbe costretto la valletta annunciata a disertare la prima serata lasciando campo libero a Belen e Canalis. Ma, dico, la prima sera Pupo parlava di referendum costituzionale sottolineando che l'importante è essere alti dentro. Se l'apparenza non ingannasse che gusto ci sarebbe? Meglio, molto meglio parlare delle mutande. E lasciare al proprio destino chi si indigna perché la musica è in secondo piano. Un festival in mutande è sempre meglio di un festival trasformato in messa cantata da un Celentano soporifero. (p.s. di Belen, Sanremo, nudità e mutande parlavamo anche un anno fa. Così)

venerdì 10 febbraio 2012

La gestione delle lacrime (La Fornero non c'entra)

Dal Giornale del Popolo del 10 febbraio 2012
«Adesso faccio un bel pianto». Per mio padre è un proposito di liberazione come una doccia dopo una corsa di dieci chilometri. Da sempre sostiene che piangere sia bellissimo e salutare. C'è un ramo della famiglia dalla lacrima facile. Sono i “sensibili”, quelli simili al nonno che, buon'anima, se n'è andato per un colpo prima che noi nascessimo e prima che quella generalessa di mia nonna portasse a termine il compito di rendergli la vita una corsa a ostacoli tra divieti e scene di gelosia che lui seraficamente ignorava. Il ramo degli insensibili, in tutto simili alla generalessa, vanta una predisposizione molto meno spiccata alle lacrime. Beninteso, tutti piangono. Ma i secondi lo fanno quando è davvero necessario e pertinente; gli altri, invece, diventano delle fontane quando nessuna convenzione sociale lo prescrive. La gestione delle lacrime resta una questione complessa, soprattutto se si è uomini, perché una donna che piange non fa testo. Generalmente quando ti vedono piangere danno sempre la colpa agli ormoni, che è un po' come fare commenti razzisti di fronte ai crimini commessi dagli stranieri. Sta di fatto che lui dice che tu ultimamente piangi per tutto, perché il film su Margaret Thatcher è tutto tranne che strappalacrime. Così mentre lui si interroga sulla lettura politica dello sciopero dei minatori e del conservatorismo inglese tu non sai se sia più straziante la demenza senile della lady di ferro o il suo amore per il marito morto e nel dubbio piangi doppiamente. «Ma tu non piangi mai?». «Certo che piango». «E quando?». «Per lo sport, per lo sport piango». Chissà se pensa anche lui allo spot con David Beckham in mutande per H&M.