Il capo micragnoso, il collega che mastica il chewing gum
rumorosamente, quello che non offre mai il caffè, quello che crede di avere una
vita interessante da raccontare, quello che scrive email invece di girarsi a
parlare, quello che alle mail non risponde mai. Persino quello con l’alito
invadente e persino le battute tristi che quell’altro ti costringeva ad
ascoltare. La mensa, anche, e la sua linea di pizze gommose una volta a
settimana o il menù asiatico che ci ha fatti stare male a turno tutti. Mancano
tutti, manca tutto.
Non c’è persona che non si lamenti del proprio lavoro e non
c’è persona che, cambiato ufficio, non passi gran parte del proprio tempo a
pensare quanto si stesse meglio prima. Mancano i colleghi con cui si fumava una
sigaretta pur di sfuggire ai discorsi degli altri, mancano quelli che bisognava
trascinare a pranzo ogni volta. Mancano quelli che, se ne accorge più
facilmente chi se ne va, tra un caffè e l’altro erano diventai amici. Mancano
persino tutti i motivi per cui si era deciso di andarsene.
La solita breve e super accurata indagine rivela che l’effetto nostalgia attanaglia tutti
quelli che cambiano lavoro. Spesso vanno incontro a stipendi più alti e
promozioni eppure passano un tempo variabile tra i due e i tre mesi a pensare
quanto si stava meglio stando peggio. Pensavo che fosse la solita sindrome di
noi over trenta, affezionati al lamento quasi quanto ai nostri telefoni. Del
resto, uno dei segnali che la sindrome è pieno svolgimento è la scelta di
rimanere nei gruppi WhatsApp di un tempo, continuando a commentare le
performance degli ex capi e continuando, in fondo, a sentirsi un po’ parte del
mondo di prima.
In molti i casi i colleghi smarriti hanno ragione. Prima si
stava meglio. Il nostro istinto preferisce sempre il conosciuto al brivido
delll’ignoto. Anche se l’ignoto è una macchinetta del caffè diversa da quella
precedente. «Non è un posto normale», assicurano gli amici prima di iniziare a
lamentarsi di quello che succede tra le quattro mura del proprio ufficio. Di
solito rispondo che i posti di lavoro normali non esistono. Al pari delle
famiglie normali. E dei paesi normali. Di normale non c’è nulla. Se non la
tendenza, incrollabile, a rimpiangere i mondi conosciuti per paura di quelli
nuovi. Il rimedio è lo steso del caldo: pazienza e sangue freddo.
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