
La committenza è alternativamente la croce e la delizia di tanti artisti perciò sarò sincera e vanitosa rivelandovi che in un’evidente quanto odiosa dimostrazione di forza machista i supremi capi di questo giornale mi hanno suggerito (e sappiamo bene quanto i “suggerimenti” dei capi ci lascino margini di libertà) di occuparmi dello sciopero delle donne. Ho fatto notare che stavano esercitando la loro forza patriarcale (maschi entrambi, non avevano scampo) e che l’unico modo corretto per parlare davvero dello sciopero sarebbe stato scioperare io stessa e lasciarli a interrogarsi pensosi di fronte alle mie pagine vuote. Ho riflettuto sulla forza della performance, mi sono immaginata la Marina Abramovic del giornalismo cantonale, ho pensato a quanto sarebbe stata instagrammabile la pagina bianca. Poi ha vinto la voglia di dire la mia e soprattutto il gusto di mostrarsi disaffezionata alla causa nell’esatto momento in cui avevo convinto tutti a darmi ragione.
Tutte le ragioni più
giuste
La causa, appunto. Il 14 giugno incrociamo le braccia per
chiedere effettiva parità ovunque. Il sito del movimento è pieno di ragioni e
approfondimenti storici e prêt-à-porter.
Dallo sciopero delle donne in Colombia nel 1920 alla possibilità di acquistare
“t-shirt e borse per lo sciopero delle donne belle e a prezzi ragionevoli”. Se
anche voi, come me, state pensando alla t-shirt con la scritta “We should all
be feminists” firmata Dior al prezzo di quasi settecento franchi farete meglio
a dedicarvi ad occupazioni più serie. Lo sciopero serve a dire basta alle
discriminazioni, battersi per la parità salariale, chiedere più investimenti a
sostegno della maternità e dell’infanzia. E poi decine di altre ottime cose.
C’è una sezione del sito in cui la parola passa alle donne stesse. Citazioni
volitive raccontano le intenzioni di chi sciopererà per “dire no al
femminicidio”, chi “per non dover prestare la maggior parte del lavoro non
retribuito” e chi “per dire basta a battute sessiste”. Per i motivi più vari e
le intenzioni più serie oggi ci saranno donne in piazza, donne a braccia
conserte donne che se ne fregheranno. Perché non credono nello strumento stesso
dello sciopero, perché la pensano diversamente, perché se ne dimenticheranno,
perché devono finire quel lavoro urgente prima di correre dal parrucchiere. Perché,
semplicemente, no.
Se son diritti, sono
per tutti
Per prima cosa voglio dunque sgombrare il campo da un
equivoco: va bene tutto. Va bene la t-shirt dello sciopero e va bene quella di
Dior, va bene l’impegno e va bene il menefreghismo. Va bene, purché l’idea di
donna per cui agire sia quella che ci corrisponde e non quella imposta da
qualcuno, anche si trattasse del più illuminato promotore di uno sciopero o di
un’azione di autocoscienza. Troppo spesso crediamo di poter dedicare le nostre
energie soltanto alle donne impegnate. Cresciamo le nostre figlie con le storie
delle bambine ribelli, Gaber e Jannacci, poi un giorno ascoltano chissà dove
Baby K e la Macarena e vogliono solo ballare “io cerco il mare mentre tu cerchi
il wi-fi”. E va bene così.
Ultima cosa. Libertà non è contro gli uomini (c’è bisogno di
sparare sulla croce rossa?) ma è per le
donne. Anche per quelle che degli scioperi se ne fregano. Anche e soprattutto
per le bambine che ascoltano Baby K e un giorno si innamoreranno di Beyoncé. Va
bene tutto. Ma la t-shirt di Dior va meglio.
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